28/03/10

USanatory?

Società, economia, politica: quanto è importante una riforma dell’immigrazione negli Usa?

we-work-for-america
L’immigrazione, o meglio, la riforma della legge e una regolarizzazione per milioni di persone che vivono illegalmente negli States è un altro tema del giorno. L’enorme movimento pro-riforma che si manifestò nel 2006 sta tornando in strada. Il giorno del voto della riforma sanitaria erano a Washington, domani ci sarà una manifestazione a Los Angeles. A differenza di altre grandi questioni, per le quali Obama e Organizing for America devono promuovere la partecipazione, tornare dai volontari e motivarli, nel caso dell’immigrazione la domanda di riforma è enorme tra gli irregolari e tra i loro compagni di lavoro, familiari, amici, nelle chiese e nelle organizzazioni locali. La spinta alla riforma c’è già senza bisogno di generarla. Persino George W. Bush (e suo fratello Jeb) speravano di portare a casa qualcosa: Ted Kennedy e John McCain (Arizona, dove il voto ispanico pesa e l’emergenza ilegali pure) scrissero una legge che venne bocciata. All’epoca si parlava di legalizzare circa 7-8 milioni di persone.

E adesso? Lo stato dell’arte: i senatori Graham (Rep. South Carolina, amico di McCain, moderato) e Schumacher (Dem, New York), stanno cercando un accordo bipartisan in materia. Il presidente ha giurato che questa è una sua priorità e Graham lo ha criticato: se fosse una priorità, avremmo il fiato sul collo della Casa Bianca, fino ad oggi non è stato così. Ha ragione, da oggi terremo d’occhio il collo del senatore Graham per capire se si forma una patina di vapore acqueo. Nei giorni precedenti il voto sulla Sanità lo stesso Graham ha minacciato: se usate la reconciliation – ovvero andate allo scontro procedurale con mio partito – ogni ipotesi di legge bipartisan in materia di immigrazione è destinato al fallimento. Sembra di capire che dopo il voto il lavorìo su una legge stia continuando.
Come mai? Intanto perché i repubblicani non si possono permettere di regalare il voto latino ai democratici. La percentuale di ispanici (ma anche asiatici) che vota Dem cresce in maniera costante. Se passasse una legge solo democratica, apriti cielo: gli ispanici sono una porzione crescente della popolazione e se ci fosse una regolarizzazione, questa aprirebbe nel medio periodo  la strada a una nuova infornata di cittadini statunitensi. Ora, se gli italo-americani di destra di una certa età capita ancora di votare Dem perché hanno la foto di Kennedy in panetteria, pizzeria o whatever (lo zio di Tony Soprano, parla sempre di JFK nella fiction, pur essendo un mafioso retrogrado), immaginate cosa siginificherebbe per i democratici dare la cittadinanza a qualche milione di ispanici. Una legge bipartisan è molto meglio per il Grand Old Party.
What is at stake? Semplice, negli Usa ci sono 12 milioni di persone che lavorano nei ristoranti, cantieri, pulizie, servizi vari, agricoltura, tutti senza diritti. Negli ultimi mesi dell’amministrazione Bush – e ancora in qualche Stato – molti sono stati rimpatriati, coppie divise e altre amenità che conosciamo anche noi europei. Con la generazione baby boomers che si appresta ad andare in pensione, chiunque faccia due calcoli vi dirà che quelle persone servono (nel 2018, circa 14 milioni di posti di lavoro per 9,6 milioni di nuovi lavoratori americani). Fino a quando la disoccupazione sarà tanto alta, però, il tema resta scivoloso. Una riforma renderebbe furiosa quella parte di America che teme per il declino irreversibile dell’uomo bianco. Il Tea party e i gruppi suprematisti e xenofobi potrebbero trovare nuova linfa. In California i candidati governatori che concorrono alle primarie repubblicane si sfidano già sul terreno di chi è più duro sull’immigrazione irregolare. Si vede che il voto latino proprio non lo vogliono. Come per altre grandi questioni, l’equilibrio tra Stati Uniti di ieri e di domani è molto delicato e complicato.
Tre esempi di complicazione di ieri e di oggi. Da questa recensione sul NYT scopriamo che il concetto di uomo bianco è piuttosto mutevole. L’inventore della classificazione che si usa ancora eni censimenti statunitensi per bianco, caucasico, che per lo scienziato di origini tedesche era il bello, il meglio, includeva nella definizione anche indiani e nord-africani. Oggi non la penseremmo così. Da questa column settimanale di Thomas Friedman scopriamo invece che alla cena in onore dei 40 studenti di college che hanno vinto il concorso 2010 bandito da Intel su innovazione e idee, la maggior parte di nome faceva Zhao, Puranik e cose difficili così. Friedman ne deduce che se gli Usa vogliono continuare a essere il centro del mondo, devono continuare ad attirare cervelli, cuori, braccia. Terzo esempio: nel censimento in corso c’è la parola Negro. C’era nel 2000 e nessuno ci fece caso. La usava anche Martin Luther King, ma quest’anno il direttore del censimento è dovuto andare in Tv a scusarsi. Nel 2000 l’ufficio aveva fatto un’indagine, gli anziani si definivano negro, i più giovani african-american. Ergo, avevano incluso la parola N nel questionario. Dopo dieci anni la gente cresciuta prima di Selma comincia ad essere poca. E la parola N è diventata offensiva.

Nessun commento:

Posta un commento