22/04/11

bambini ladri

Bambini ladri

Luca Cefisi
Newton Compton, 2011
pp.224, € 12,90

Intervista all'autore: Fonte http://www.bookblog.it/


Nell’immaginario collettivo il bambino rom è sporco, maleducato, “ladruncolo” e secondo qualcuno addirittura “è più facile educare un cane che un rom“. Per comodità si tende a dare per buone le opinioni superficiali dettate dal pregiudizio, ma, per fortuna, non tutti ci stanno e c’è chi prova a indagare certe realtà proprio per sfatare alcuni “miti”. E’ quello che ha fatto Luca Cefisi, esperto di immigrazione, con il libro Bambini ladri, un saggio sulla vita nei campi cosiddetti “nomadi” (in realtà molti degli abitanti di questi insediamenti sono lì da lunghi periodi e quindi sono ormai stanziali), in cui si sopravvive in condizioni di estremo disagio. Gli abbiamo rivolto qualche domanda.



I bambini di cui lei parla nel libro entrano nel mondo dei gagé da una porta secondaria, su di loro pesano secoli di pregiudizi, ancora oggi molto forti. Quanto influisce negativamente questo atteggiamento sul percorso di vita che intraprenderanno? In parole povere: il fatto di sentirsi dire “puzzi”, “non capisci”, “rubi”, quanto li allontana dalla prospettiva di una vita diversa da quella che vivono nei campi e a cui sembrano destinati per sempre?

La risposta è già nella domanda: l’abbandono scolastico è alto, e mancando incentivi e quello che uno psicologo definirebbe un “rafforzamento positivo”, un percorso di integrazione ed emancipazione diventa arduo per questi ragazzi. In generale, appare ipocrita pretendere legalità e adesione ai valori dell’ordine sociale quando quest’adesione non viene premiata. In queste condizioni, la tentazione dell’illegalità non può che essere fortissima. Sarebbe opportuno uscire da un discorso moralistico, e chiederci invece cosa possiamo offrire ai giovani rom, che sia più attraente e più convincente delle lusinghe della vita ai margini della legge. Senza l’apertura di opportunità, in primo luogo lavorative e abitative, non possiamo stupirci se molti di loro si rinchiudono nel “familismo amorale” del gruppo unito contro tutti e tutto.



La scuola italiana appare sempre meno pronta ad accogliere bambini stranieri in generale, rom ancora di meno. E’ un’agenzia educativa che privilegia ancora alcune materie rispetto ad altre, che non valorizza la ricchezza di cui i bambini sono portatori, ma penalizza soltanto le mancanze. Dimentica, ad esempio, che i piccoli rom già a sei anni sono bilingue e hanno responsabilità familiari, come badare ai fratellini più piccoli. Lei pensa che la scuola si aprirà mai a una prospettiva interculturale, mettendo in discussione il proprio modo di fare e ripensando una nuova idea di scuola?

La scuola pubblica italiana spesso offre un’ottima offerta formativa, e ci sono insegnanti che lavorano eroicamente sulla frontiera della periferia, del multiculturalismo, dei diritti. Il problema è che questi insegnanti spesso sembrano a loro volta lasciati a sè stessi, senza la legittimazione di un progetto educativo generale promosso dal centro. La mortificazione del bilinguismo è un caso classico, la scuola italiana, per esempio, fa ben poco per esaltare le risorse linguistiche dei bambini cinesi o arabi, che pure parlano lingue vincenti nella globalizzazione, lingue la cui conoscenza è garanzia di sicuro successo in tanti campi professionali, figuriamoci quanta attenzione viene dedicata alla lingua dei rom, che è una lingua senza appeal e neppure riconosciuta tra le lingue minoritarie nazionali. Dobbiamo poi riconoscere che la scuola è necessaria, ma non sufficiente: la scolarizzazione porta a delusioni cocenti, quando si scopre che dopo la scuola, che in fondo è il luogo maggiormente attento e protetto, fuori, nel mondo del lavoro, nel rapporto con lo Stato, la lotta è ancora più dura. La scuola da sola, senza una politica sociale complessiva, non solo non basta, ma rischia di essere una foglia di fico e deludere, anche involontariamente, le aspettative.



La morte dei quattro bambini rom avvenuta a Roma ha riacceso la questione dei Campi nomadi nella capitale: a pagare con la vita sono stati proprio alcuni dei bambini di cui lei parla nel libro. Ora, in modo strumentale, si sfrutta questa triste vicenda per far arrivare altri soldi nelle casse del comune della capitale. Nel frattempo, la Croce Rossa ha firmato un protocollo d’intesa per gestire i servizi socio educativi nei campi attrezzati. Secondo lei è questa la strada da seguire? Riportare i servizi nei campi e trattare i rom come un’emergenza tale da far intervenire un organo della portata della Cri?

Nel mio libro sostengo, credo con qualche argomento, che i campi nomadi devono essere smantellati. Uno degli argomenti è proprio il cattivo rapporto costi/benefici: le spese amministrative, di gestione, della cosiddetta “sicurezza”, per esempio quelle del personale di vigilanza, le spese per i container (pessimi), le recinzioni, e tutto il resto, bruciano centinaia di migliaia di euro. Si dovrebbero usare questi soldi per percorsi individuali e familiari di integrazione, non per perpetuare dei ghetti. La CRI non ha poi nessuna particolare competenza in questo campo: sanitaria ? Ma i rom devono andare alla ASL come ogni altro cittadino ! Di gestione di comunità ? Ma non si tratta di profughi, direi anzi che i rom che vivono nei cosiddetti campi nomadi hanno un’esperienza fuori dal comune nel sopravvivere senza l’aiuto di nessuno. In generale, quello che preoccupa è che i milioni di euro dell’”emergenza rom” sembrano essere destinati a perpetuare questa stessa emergenza, perchè non vengono spesi per cambiare in maniera strutturale una situazione di emarginazione cronica, ma anzi, sembrano fare di tutto per consolidare tale situazione.

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