con buona pace di Ray Bradbury, questi sono racconti allucinanti.
Reportage: cronache libiche
La nave della Marina Militare italiana entra nel porto di Tripoli poco prima delle 10 e viene fatta ancorare in un'area riservata. A bordo ha il suo carico di persone recuperate in mezzo al mare nella notte e respinte per ordine del governo di Roma. Sono ghanesi, bengalesi, tunisini, marocchini, ma la maggior parte è nigeriana. Ci sono 40 donne, due sono incinte, oltre a due bambini piccolissimi. Hanno tutti sfidato la sorte e sono stati beffati.
Quando scendono dalla scaletta appaiono smarriti, qualcuno si sente male. Molti sono disidratati, sfiniti dalle ore trascorse in balia delle onde in attesa che fossero effettuati i trasbordi per riportarli indietro. Insieme ai poliziotti locali ci sono gli ufficiali di collegamento italiani. Le autorità libiche hanno consentito anche al rappresentante dell'Iom, l'Organizzazione internazionale per i migranti, di assistere allo sbarco e di verificare le loro condizioni. I pullmini aspettano di trasferirli a Twescha e negli altri centri di accoglienza dove sono già stati portati i 227 stranieri recuperati la notte di mercoledì. Il viaggio è finito, infranta è la speranza di raggiungere l'Europa. Li bloccano nelle acque internazionali, ma pure nel deserto. Da quando è scattato l'accordo con l'Italia, le squadre di agenti e dei servizi segreti effettuano pattugliamenti nella zona di Bengasi e sulla strada che da Sirte porta verso la costa per fermare chi entra illegalmente nel Paese. Raccontano di averne presi almeno 2.000 in tre settimane. Spiegano che anche gli scafisti adesso si stanno riorganizzando.
Il generale Hammad Issa è il capo delle unità investigative della polizia libica. Sul tavolo del suo ufficio ha impilato gli ultimi rapporti che raccontano le operazioni di rastrellamento per individuare i trafficanti e le loro «basi». Ha evidenziato le informazioni che possono aiutare a prevenire le loro prossime mosse. Ed è lui a tracciare «la rotta alternativa» che le organizzazioni criminali stanno tentando di aprire per aggirare i controlli. Partenza da Al Zwara o dalle altre località più a ridosso dell'Egitto, con destinazione Creta. Se questo accordo per i pattugliamenti congiunti continuerà a essere attuato, «i criminali dovranno puntare verso Est, potrebbero arrivare fino in Turchia».
Ci sono migliaia di stranieri che sono stati ammassati ad Al Zwara e nelle altre spiagge vicine, in attesa di partire. Hanno attraversato il deserto quando la temperatura non era ancora alta e adesso che si superano i 30 gradi, aspettano il proprio turno. Gli scafisti cercano di caricarne il più possibile sui barconi, ma moltissimi sono stati ingannati. Chi paga per salpare e raggiungere l'Europa sa che il patto lo obbliga a percorrere a nuoto l'ultimo tratto di mare. Ed è questo che consente l'inganno: c'è chi viene scaricato dopo aver percorso appena cento miglia, in prossimità della piattaforma dell'Eni che in mare libico estrae il petrolio e dalla quale partono spesso i rimorchiatori per dare soccorso alle barche in difficoltà. Quando le luci sono appena visibili chi è al timone grida «Italia, arrivati » e ordina di tuffarsi. Ne muoiono moltissimi, travolti dalle onde, stremati dalla fatica. Tanti altri affondano insieme ai mezzi di fortuna dove i trafficanti li hanno stipati. Ieri mattina al porto di Tripoli il rappresentante dell'Iom ha osservato quelle decine di persone mentre, con lo sguardo perso, tentavano di capire quale fosse la loro sorte. «Nessuno ha chiesto asilo — puntualizza Lawrence Hart, che dell'Iom è il responsabile per la Libia — ma noi entreremo nei centri per verificare che i nuclei familiari non siano stati divisi e per assicurarci che vengano trattati bene». Non è a lui che si deve rivolgere chi vuole avviare la pratica per chiedere protezione «ma noi abbiamo l'impegno di coordinare la parte umanitaria », chiarisce per scacciare il sospetto che la sua organizzazione — che qui oltre all'Ue rappresenta Italia, Gran Bretagna e Usa — possa coprire eventuali violazioni dei diritti umani. Dopo l'arrivo il suo delegato ha potuto scambiare qualche parola con gli stranieri. «La maggior parte ha raccontato di essere partita da Al Zwara — dice Hurt — altri non hanno voluto rivelare nulla. Sono spaventati, c'è chi pensa già di riprovarci». In serata arriva la segnalazione che in acque internazionali c'è un altro mezzo. Forse è una barca, più probabilmente un gommone. A bordo ci sarebbero una quarantina di stranieri. Migranti senza ormai speranza di approdare nella terra promessa, l'Italia.
Quando scendono dalla scaletta appaiono smarriti, qualcuno si sente male. Molti sono disidratati, sfiniti dalle ore trascorse in balia delle onde in attesa che fossero effettuati i trasbordi per riportarli indietro. Insieme ai poliziotti locali ci sono gli ufficiali di collegamento italiani. Le autorità libiche hanno consentito anche al rappresentante dell'Iom, l'Organizzazione internazionale per i migranti, di assistere allo sbarco e di verificare le loro condizioni. I pullmini aspettano di trasferirli a Twescha e negli altri centri di accoglienza dove sono già stati portati i 227 stranieri recuperati la notte di mercoledì. Il viaggio è finito, infranta è la speranza di raggiungere l'Europa. Li bloccano nelle acque internazionali, ma pure nel deserto. Da quando è scattato l'accordo con l'Italia, le squadre di agenti e dei servizi segreti effettuano pattugliamenti nella zona di Bengasi e sulla strada che da Sirte porta verso la costa per fermare chi entra illegalmente nel Paese. Raccontano di averne presi almeno 2.000 in tre settimane. Spiegano che anche gli scafisti adesso si stanno riorganizzando.
Il generale Hammad Issa è il capo delle unità investigative della polizia libica. Sul tavolo del suo ufficio ha impilato gli ultimi rapporti che raccontano le operazioni di rastrellamento per individuare i trafficanti e le loro «basi». Ha evidenziato le informazioni che possono aiutare a prevenire le loro prossime mosse. Ed è lui a tracciare «la rotta alternativa» che le organizzazioni criminali stanno tentando di aprire per aggirare i controlli. Partenza da Al Zwara o dalle altre località più a ridosso dell'Egitto, con destinazione Creta. Se questo accordo per i pattugliamenti congiunti continuerà a essere attuato, «i criminali dovranno puntare verso Est, potrebbero arrivare fino in Turchia».
Ci sono migliaia di stranieri che sono stati ammassati ad Al Zwara e nelle altre spiagge vicine, in attesa di partire. Hanno attraversato il deserto quando la temperatura non era ancora alta e adesso che si superano i 30 gradi, aspettano il proprio turno. Gli scafisti cercano di caricarne il più possibile sui barconi, ma moltissimi sono stati ingannati. Chi paga per salpare e raggiungere l'Europa sa che il patto lo obbliga a percorrere a nuoto l'ultimo tratto di mare. Ed è questo che consente l'inganno: c'è chi viene scaricato dopo aver percorso appena cento miglia, in prossimità della piattaforma dell'Eni che in mare libico estrae il petrolio e dalla quale partono spesso i rimorchiatori per dare soccorso alle barche in difficoltà. Quando le luci sono appena visibili chi è al timone grida «Italia, arrivati » e ordina di tuffarsi. Ne muoiono moltissimi, travolti dalle onde, stremati dalla fatica. Tanti altri affondano insieme ai mezzi di fortuna dove i trafficanti li hanno stipati. Ieri mattina al porto di Tripoli il rappresentante dell'Iom ha osservato quelle decine di persone mentre, con lo sguardo perso, tentavano di capire quale fosse la loro sorte. «Nessuno ha chiesto asilo — puntualizza Lawrence Hart, che dell'Iom è il responsabile per la Libia — ma noi entreremo nei centri per verificare che i nuclei familiari non siano stati divisi e per assicurarci che vengano trattati bene». Non è a lui che si deve rivolgere chi vuole avviare la pratica per chiedere protezione «ma noi abbiamo l'impegno di coordinare la parte umanitaria », chiarisce per scacciare il sospetto che la sua organizzazione — che qui oltre all'Ue rappresenta Italia, Gran Bretagna e Usa — possa coprire eventuali violazioni dei diritti umani. Dopo l'arrivo il suo delegato ha potuto scambiare qualche parola con gli stranieri. «La maggior parte ha raccontato di essere partita da Al Zwara — dice Hurt — altri non hanno voluto rivelare nulla. Sono spaventati, c'è chi pensa già di riprovarci». In serata arriva la segnalazione che in acque internazionali c'è un altro mezzo. Forse è una barca, più probabilmente un gommone. A bordo ci sarebbero una quarantina di stranieri. Migranti senza ormai speranza di approdare nella terra promessa, l'Italia.
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