13/03/10

le nuove rotte

Vento, onde e paura ecco le rotte dei nuovi schiavi

«Barça o barzak!». Barcellona o morte! Sembra di essere tornati ai tempi della guerra civile spagnola, al grido di battaglia dei moros musulmani per la conquista della mitica al-Andalus. Siamo invece nel nuovo millennio,a sud di Dakar, sulla spiaggia di Fadiouth, la spiaggia delle conchiglie. Si trova nel cuore della Petite Côte: onde imponenti, sabbia fine, mangrovie, palme piegate dal vento e un sacco di pesci. Dietro i bungalow immersi nel verde e pieni di turisti, duecento persone agitano mani e piangono. Rispondono all' addio che arriva dal largo. Su una piroga di 25 metri, dipinta con i colori vivaci di queste latitudini, 113 giovani tentano l' ultima sfida. Lo fanno da dieci anni. Continuano a farlo. Vecchi e nuovi schiavi. Vogliono arrivare in Spagna e poi in Europa.
Mezzo secolo dopo la fine del colonialismo il Senegal, e gran parte dell' Africa, non riesce ad offrire alcuna alternativa. Si continua a partire. La ricchezza resta concentrata nel nord del mondo. Lì ci sono occasioni di lavoro; lì si può fare ciò che gli altri non fanno e non vogliono più fare. Cento chilometri più a nord, su un' isola che è diventata un museo, file di afroamericani si affacciano in silenzio sulla porta degli schiavi. Tre secoli dopo, Gorée conserva quasi intatta quella magia carica di sofferenza che ha colpito anche un segretario di Stato pragmatico come Condoleezza Rice. Il forte portoghese coni suoi cannoni rivolti al largo, il camminamento delle guardie, il sottoscala destinato alle donne afflitte dal mestruo, la stanza in cui erano visitati gli uomini strappati alla giungla. Tutto avvolto da un silenzio pesante. Fino a quella porta affacciata sull' oceano, a strapiombo sugli scogli, che dalla metà del Seicento portava dritta sul vascello, pronto a salpare verso il buio, l' ignoto. I giovani della piroga sono già al largo. «Chi aveva organizzato il viaggio - racconta Amar Moussé N' gom, 28 anni, oggi presidente del Gie, un' organizzazione che si occupa degli immigrati irregolari - era gente esperta. Vecchi pescatori. Sapevano cosa significa navigare per 8 giorni e 8 notti sull' Atlantico.E su una piroga dove un solo movimento brusco, un cambio di peso, la fa rovesciare. Quelle sono barche usate per andare a pesca, anche per cinque giorni. Al massimo caricano trenta persone, noi eravamo 113. Con i viveri, riso, latte, olio, carne e pesce congelati, acqua, pasticche per il mal di mare. Qui siamo tutti poveri: tirare fuori 750 mila franchi senegalesi a testa, 1300 euro, non è uno scherzo. Lo sappiamo tutti, quando accettiamo di partire: viaggio velocee ci affidiamo ad Allah. Via terra è molto più complicato. Spesso devi vagare per mesi tra un Paese e l' altro, nasconderti, cercare di lavorare per finire di pagare il resto del viaggio. Sei alla mercé di banditi, taglieggiatori, gente che ti prende, ti spoglia di tutto, ti porta in pieno deserto e ti abbandona. Resistono solo i più forti: molti perdono il senso dell' orientamento, si lasciano morire». Sulla piroga ci sono anche mappe artigianali. Sono state tracciate dai pescatori che le hanno elaborate in base alle esperienze di chi ha già fatto il viaggio. Un Gps, l' unico strumento a bordo oltre la bussola, ti segnala il puntoe ti avverte quando esci dalle acque internazionali. Amar Moussè torna a quella notte. «Per cinque giorni è filato tutto liscio, poi è arrivata la tempesta. Vento e onde da paura. L' acqua entrava da tutte le parti: a bordo pochissimi sapevano nuotare e si facevano prendere dal panico. Il cibo scarseggiava, ma il problema era l' acqua potabile. La salsedine, il sole a picco ci seccavano sempre la gola. La gente aveva sete e beveva. La vera fatica è stata tenerla ferma. Accucciata sul fondo, tra urla, grida, preghiere, vomiti, febbre». A Dakar oggi si parla di Haiti. Il Senegal ha un particolare legame con quell' isola. Il presidente Abdoulaye Wade ha proposto agli abitanti sconvolti dal terremoto di tornare in Africa, ha promesso loro anche un pezzo di terra. Il ministero della Cultura organizza una giornata alla memoria. Parlare di Haiti significa rievocare una coscienza, riaprire una ferita che quattrocento anni di tratta degli schiavi continuano a farla sanguinare. Anche oggi: sulle decine di barche che continuano a sognare il nord del mondo. La piroga combatte contro le onde. Piegata su un lato, semiaffondata, vira verso terra e raggiunge la costa. «Il mare si era calmato - ricorda ancora Amar - la gente era felice, pensava di essere arrivata. Li abbiamo dovuti frenare, si sarebbero buttati in acqua pur di raggiungere la riva. Gli uomini del Polisario erano già sulle dune. Sono capaci di ucciderti, dopo averti torturato. Spesso ti catturano come schiavo. E' la loro terra e non vogliono stranieri. Siamo tornati al largoe quando il Gps ci ha detto che eravamo entrati nelle acque spagnole, abbiamo puntato dritti su Tenerife. La gente del posto è uscita dalle case, ci è venuta incontro. Ci ha applaudito. Ci ha fatto sentire degli eroi. Avevamo affrontato la morte per una nuova vita. La polizia ci ha messo in un campo. E' stata chiara: se fra 40 giorni siete ancora qui, sarete liberi di andare dove volete. Ma cinque giorni prima della scadenza sono arrivati gli uomini dei servizi di Dakar. Furbi, abilissimi, ci hanno interrogato, chiesto dove stavamo andando. Poi hanno fatto una bella lista, messo delle crocette rosse sui nomi e via su un aereo. Ci siamo ritrovati a Saint Louis, in Senegal». Il ricordo di Haiti e degli schiavi dura tutto il giornoa Dakar. Sono presenti deputati, leader politici, religiosi, presidenti di banche, rappresentanti esteri. Il dibattito appassiona e coinvolge tutti. Fuori il traffico è di nuovo caotico. La gente torna dal lavoro. Le strade sono ancora piene di venditori. Piccoli e grandi, uomini e donne. Si lotta per portare a casa qualcosa da mangiare. E' un rito che si ripete tutti i giorni. Tra gas di scarico asfissianti, autobus traballanti e colmi di passeggeri, carri trainati da asini ridotti a scheletri, moto e taxi sgangherati. Dicono che a Tenerife ci sia un cimitero di piroghe affondate. I motori fuoribordo vengono confiscati. Amar Moussè N' gom ha gli occhi arrossati di chi dorme poco e male. Si vede che soffre. Oggi dirige questa associazione che ha portato in piazza migliaia di giovani rimpatriati. Il prefetto, davanti a quella folla esasperata, ha promesso di fare qualcosa. Amar passeggia nervoso, la testa bassa. Tira calci ai sassi della spiaggia già piena di pescatori che trattano al mercato. «L' unica volta che ho pianto - dice - è stato quando sono tornato a casa. Le mie sorelle e mia madre sono venute in stanza e mi hanno abbracciato. Mio padre stava riparando la barca, fuori. Gli amici erano spariti. Altri ci hanno riprovato e sono riusciti. Mi chiamano ogni tanto. Lavorano, hanno una casa, dicono di essere felici. Per me e tanti altri è diverso: abbiamo fallito. Con noi stessi e con questo Stato incapace di riscattarci»

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