11/12/10

Mass media e immigrazione, un rapporto difficile...



E' appena uscito il saggio Immigrazione e Mass-Media. Per una corretta informazione (Arcipelago Edizioni, a cura di Alessandra Montesanto) che raccoglie gli atti di un convegno che si è tenuto lo scorso maggio alla Casa della Cultura di Milano. All'interno anche un mio intervento. Per chi avesse la voglia e la pazienza di leggerlo... eccolo qui!

Il tempo presente, tra audience, realtà e web 2.0
Comincio il mio intervento raccontando alcuni episodi, di cui ho avuto esperienza diretta, e che secondo me evidenziano bene l’approccio strumentale dei media italiani, a volte anche di area progressista, rispetto al tema immigrazione.

Qualche mese fa sono stata contattata dalla redazione di un talk-show televisivo della Rai. Avevano appreso che ero l’autrice di un libro che raccoglieva esperienze “positive” di immigrazione africana e si chiedevano se, tra queste, ce ne potesse essere qualcuna da portare in trasmissione. In particolare, volevano storie di donne. Ho avuto un momento di entusiasmo: sì, le storie femminili c’erano e le ritenevo particolarmente illuminanti. Ma prima che riuscissi a spiegare il perché, il mio interlocutore mi ha interrotto: «Ci servono storie forti, per esempio di donne fuggite da stupri e violenze o da persecuzioni religiose, che hanno attraversato il deserto rischiando di morire e in Italia si sono rifatte una vita». Il mio entusiasmo è scemato di colpo ma ho cercato di non darlo a vedere. «Fammi capire: vi servono lagrime, sangue e lieto fine, magari a cura di una ong?». «Esattamente, brava, proprio così», ha risposto lui, con un tono allegro, pensando forse di avere fatto centro. «Mi dispiace», ho detto, anche se non mi dispiaceva affatto. «Nel mio libro non ci sono effetti speciali, racconti a tinte forti. Io ho parlato della normalità, ho cercato di dare un’immagine dell’Africa e degli africani non deformata dagli stereotipi. Le persone che racconto hanno lasciato il proprio Paese e i propri affetti per migliorare, mettersi alla prova, aiutare quelli che restavano. Hanno superato prove dure, ma non stavano fuggendo dall’inferno per entrare in Paradiso come vogliamo sempre credere. Non sono dei miracolati: si sono inseriti nella nostra società lavorando e faticando e stanno contribuendo attivamente a migliorarla. L’Africa ha molte ferite ma, grazie a Dio e a tanti africani, non è un inferno monolitico e, d’altra parte, qui non siamo in Paradiso». L’allegria del tono, a quel punto, ha lasciato il posto all’imbarazzo. «Hai ragione, hai ragione, capisco cosa intendi, ma noi abbiamo un problema di format e di audience…».

Problemi di format e di audience doveva averli anche lo staff di un’altro programma Rai che, poche settimane dopo il lancio del movimento Primo Marzo, ci contattò per invitare una delle promotrici. Si trattava di una trasmissione importante, molto seguita e di sinistra: sembrava proprio una bella occasione e noi - illuse - pensavamo di potere decidere liberamente chi mandare. Ci fecero subito sapere invece che volevano una persona di colore e con meno di trent’anni. Il vincolo cromatico non rappresentava un problema (due su quattro tra noi promotrici erano nere), quello anagrafico, invece, sì: i trent’anni li avevamo lasciati da un pezzo. Però, da qualche tempo, collaborava con noi una giovane studentessa universitaria in gamba e decisamente nera, esponente delle cosiddette seconde generazioni. Pensammo di risolvere la cosa delegando lei. L’intervista preliminare andò liscia come l’olio. Eravamo in trepidante attesa quando arrivò la doccia fredda: i capi del programma bocciavano la nostra studentessa, rea di essere - queste le parole testuali - «troppo pulita, colta e capace di parlare». Per rappresentare i giovani immigrati o le seconde generazioni ci voleva evidentemente qualcuno che non discostasse troppo dall’immagine convenzionale dell’africano: sporco, ignorante e rozzo.

E’ vero: la sciatteria dei media italiani non riguarda solo l’immigrazione. In quest’ambito può raggiungere tuttavia vette sublimi. Perché il tema si presta e più facilmente di altri elude verifiche e riscontri: le persone a cui interessa la verità e il rispetto sono in questo caso poche e/o marginali e giornali, radio, tv sono sempre più proiettati verso l’intrattenimento e la compiacenza. I lettori e gli ascoltatori, infatti, non devono essere “disturbati” dalle notizie ma ricevere le conferme che si aspettano e vedere legittimate le proprie paure, anche se infondate: altrimenti si rischia di perderli. Inoltre, parlare di allarme immigrazione e di successive misure repressive, indipendentemente dal format, fa salire l’audience ed è considerato un argomento elettoralmente vincente, almeno sul breve e medio periodo. La sciatteria non può essere liquidata come un peccato veniale proprio perché spesso, spessissimo, è al servizio della propaganda politica e del razzismo istituzionale. Un’efficace arma di distrazione di massa, viene spesso detto: definizione non estendibile a tutti i media (le eccezioni non mancano, ma si tratta prevalentemente di pubblicazioni di nicchia, riservate a un pubblico, per così dire, già “evoluto”) ma assai calzante. Pressapochismo e superficialità si riflettono sulla scelta dei contenuti, l’individuazione delle fonti, il rigore delle informazioni e, naturalmente, l’uso delle parole. Ma hanno prodotto anche un altro effetto, forse meno tangibile, sul quale vorrei soffermarmi. Di immigrazione e immigrati si parla quasi sempre attraverso numeri e statistiche. A una lettura superficiale ciò potrebbe anche sembrare un merito, una garanzia di scientificità. Non è così. L’effetto di questa scelta narrativa è la disumanizzazione. I protagonisti dell’immigrazione e degli sbarchi, privati dei loro nomi, dei volti, delle storie personali e degli affetti, trasformati in numeri e categorie possono essere respinti, espulsi o ributtati in mare (è successo, sappiamo che è successo), schiavizzati nelle campagne o ghettizzati nelle città senza particolare pathos o senso di colpa da parte dell’opinione pubblica: in fondo sono numeri, non persone.

Per provare a contenere questa deriva l’Ordine dei Giornalisti, nel 2008, ha varato la Carta di Roma, un protocollo concernente richiedenti asilo, rifugiati, vittime della tratta e migranti. Richiamandosi al criterio deontologico fondamentale del “rispetto della verità sostanziale dei fatti osservati” (contenuto nell’articolo 2 della Legge istitutiva dell’Ordine) la categoria alla quale appartengo viene invitata, in buona sostanza, a non diffondere notizie false o imprecise e a usare termini appropriati sia dal punto di vista etico sia da quello giuridico. Per facilitare il compito gli estensori hanno allegato al documento un glossario che pazientemente spiega la differenza tra un richiedente asilo, un rifugiato, un beneficiario di protezione umanitaria, una vittima di tratta, un migrante e un irregolare. L’Ordine dei Giornalisti dell’Emilia Romagna ha adottato un altro glossario, riguardante le parole da mettere al bando. La prima della lista, perché considerata particolarmente dispregiativa, irrispettosa e foriera di equivoci, è clandestino. Ecco cosa al riguardo riporta il glossario: «Questo termine, molto usato dai media italiani, ha un'accezione fortemente negativa. Evoca segretezza, vite condotte nell'ombra, legami con la criminalità. Viene correntemente utilizzato per indicare persone straniere che per varie ragioni non sono in regola, in tutto o in parte, con le norme nazionali sui permessi di soggiorno, per quanto vivano alla luce del sole, lavorino, conducano esistenze 'normali'. Sono così definite 'clandestine' persone che non sono riuscite ad ottenere il permesso di soggiorno (magari perché escluse da quote d'ingresso troppo basse) o a rinnovarlo, altre che sono entrate in Italia con un visto turistico poi scaduto, altre ancora - ed è il caso meno frequente - che hanno evitato sia il visto turistico sia le procedure (farraginose e poco praticabili per ammissione generale) previste per ottenere nei paesi d'origine il visto d'ingresso in Italia. Spesso sono considerati 'clandestini' anche i profughi intenzionati a richiedere asilo o in attesa di una risposta alla loro richiesta, oppure ancora sfollati in fuga da guerre o disastri naturali. E' possibile identificare ogni situazione con il termine più appropriato ed evitare SEMPRE di usare una definizione altamente stigmatizzante come clandestino». Le alternative non mancano ed è lo stesso glossario a indicarle: «All'estero si parla di 'sans papiers' (Francia), 'non-documented migrant workers' (definizione suggerita dalle Nazioni Unite) e così via. A seconda dei casi, e avendo cura che l'utilizzo sia il più appropriato, è possibile usare parole come 'irregolari', 'rifugiati', 'richiedenti asilo'. Sono sempre disponibili e spesso preferibili le parole più semplici e più neutre: 'persone', 'migranti', 'lavoratori'. Altre locuzioni come 'senza documenti', o 'senza carte', o 'sans papiers' definiscono un'infrazione amministrativa ed evitano di suscitare immagini negative e stigmatizzanti».

Vi sembra un’esagerazione? Io credo che non lo sia e porto un piccolo esempio a sostegno di questa tesi. Nel maggio del 2009, in coincidenza con l’avvio della campagna respingimenti, il quotidiano La Stampa di Torino ha proposto ai suoi lettori un sondaggio. La domanda era: “Il governo ha deciso di respingere i migranti clandestini prima ancora che arrivino in Italia. Siete favorevoli?” Sessantaquattro persone su cento hanno risposto sì. Se la domanda fosse stata: “Il governo ha deciso di respingere perseguitati politici, richiedenti asilo, bambini piccoli, donne incinte, aspiranti lavoratori prima ancora che arrivino in Italia. Siete favorevoli?”, avremmo avuto la stessa percentuale? E se fossimo andati oltre, restituendo il nome, facendo vedere i volti, ricostruendo le storie dei perseguitati politici, dei richiedenti asilo, dei bambini piccoli, delle donne incinte, degli aspiranti lavoratori, a quel punto non più eventuali ma reali, stipati sulle barche e ricacciati in Libia? L’opinione pubblica avrebbe potuto mantenere tanto serafico distacco?
Tornando al nostro glossario, altre parole messe al bando perché imprecise e svalutative sono: extracomunitario, vu’ cumprà, nomade, zingaro. I giornalisti contro il razzismo hanno qualche anno fa lanciato un appello pubblico per il rispetto, da parte dei media, del popolo rom: probabilmente la principale vittima della sciatteria e del pressappochismo della stampa.

Queste iniziative (i glossari, gli appelli, la Carta di Roma), in realtà non fanno che ribadire ciò che dovrebbe essere ovvio: che un giornalista è tenuto a riportare informazioni esatte, a essere rispettoso nei confronti di tutti e in particolare dei più deboli, a usare correttamente le parole. Nel contesto italiano questa “ovvietà” rischia di diventare rivoluzionaria. Anche perché nei confronti di chi agisce diversamente non c’è in sostanza nessuna sanzione. Ci siamo ormai abituati a giornali e tv che fanno impunemente disinformazione razzista oppure si mettono a disposizione di personaggi (anche delle istituzioni, e questa è un’aggravante) che hanno come ragion d’essere quella di suscitare e alimentare insofferenza e paure irragionevoli nei confronti degli stranieri. Non è esterofilia, ma bisogna riconoscere che altrove le cose vanno diversamente. In Francia, Eric Zemmour, giornalista del Figaro, ha realmente rischiato il licenziamento, a marzo di quest’anno, dopo le polemiche suscitate da una sua affermazione pubblica: in tv aveva detto che la maggior parte dei trafficanti di droga, in Francia, sono neri o arabi. In Inghilterra, prese di posizione razziste sono costate il posto a un famoso conduttore della BBC.
In Italia invece non si registrano reazioni di questo tipo. Un gruppo di studenti di Ferrara ha organizzato un osservatorio sugli scivoloni razzisti dei nostri media. Spulciando tra le segnalazioni ci si può rendere facilmente conto delle proporzioni del problema. Una cosa interessante è che, in genere, se uno straniero commette un reato la sua nazionalità viene riportata nel titolo, Se ne è vittima no. Ecco cosa scrivono i curatori del sito in homepage: «La stampa italiana è piena di titoli e articoli che non apparirebbero mai nei media di altri paesi. Quando persone provenienti dagli Stati Uniti, dall’Inghilterra o dalla Francia, sopratutto se fanno parte di minoranze etniche, leggono i giornali italiani, non possono credere ai loro occhi. In alcuni, vedono titoli e articoli che, anche se apparentemente innocui per persone cresciute in un ambiente monoetnico, sarebbero considerati fuori luogo o di cattivo gusto in una società mista e sarebbero oggetto di forte protesta da parte dei lettori, costringendo i proprietari ed i dirigenti dei giornali stessi a cambiare tono. Ma in altri giornali e riviste italiane vedono ogni genere di offesa contro milioni di persone colpevoli solo di appartenere ad una minoranza etnica, ogni genere di accusa generalizzata che associa etnie intere con la criminalità, con la violenza sessuale, con la prostituzione, con lo spaccio della droga e ogni genere di porcheria che dipinge un quadro complessivo in cui gli immigrati compaiono come animali piuttosto che esseri umani. Nei loro paesi, articoli di questo genere sarebbero considerati incitamento all'odio razziale e verrebbero bloccati molto prima di arrivare sulle pagine dei media perchè sarebbero o illegali, o autocensurati dai giornalisti stessi».

Una ricerca recente dell’Università La Sapienza di Roma (Ricerca nazionale su immigrazione e asilo nei media italiani, diretta da Mario Morcellini e coordinata da Marco Binotto, Marco Bruno e Valeria Lai) conferma la disparità di trattamento da parte dei nostri media a seconda che si parli di italiani o di stranieri. In particolare, sottolineano i ricercatori, da vent’anni a questa parte, l’immigrazione viene raccontata sempre nello stesso modo: evidenziando e dilatando le connessioni criminali e trascurando tutto il resto. La realtà dei migranti, la loro quotidianità, le trasformazioni, la loro cultura (a parte qualche concessione alla cucina etnica) sono tutti aspetti che non trovano spazio sui giornali. Anche questo va nel senso della disumanizzazione: non sono persone gli immigrati, ma criminali. La loro sorte può non interessarci. Qualche mese fa, nella mia città d’origine, Ragusa, sono accaduti tre episodi di indiscutibile gravità: un matricidio, un uxoricidio e uno stupro. Gli autori dei primi due crimini erano autoctoni. Quello dell’ultimo no. E’ inutile dire che la vicenda che ha tenuto banco sui giornali e nelle piazze è stata l’ultima. Anche se lo stupratore è stato arrestato poco dopo, grazie alla collaborazione, tra l’altro, della sua comunità d’appartenenza, che ha preso subito le distanze e stigmatizzato la violenza. Ma su questo aspetto, la collaborazione, nessuno si è soffermato più di tanto. Non era prevista dal format e non faceva audience.

Il trattamento spersonalizzante e discriminante riservato oggi ai migranti e agli stranieri ricorda in modo impressionante quello ricevuto per anni dai meridionali immigrati al nord. Ed è singolare che la maggior parte di loro, di noi, non se ne renda conto. Personalmente ho fatto in tempo a vivere questa simpatica esperienza sulla mia pelle: quando mi sono trasferita a Pavia, per frequentare l’università (era il 1986) in giro non si vedevano ancora molti stranieri e tutto il razzismo e il pregiudizio erano per noi meridionali. Ovviamente, la mia condizione di studentessa solvente non era paragonabile a quella di chi cercava un lavoro, ma vi assicuro che è stata comunque dura. Non si affittava ai terroni e, anche se non c’erano permessi di soggiorno di mezzo, le unioni “miste” erano mal viste. Una cosa che mi sentivo spesso dire, come se fosse stato un complimento, era: sai che non sembri una siciliana? Oggi a molti immigrati vengono dette frasi simili, e sempre con una drammatica presunzione di gentilezza: “Sei un gran lavoratore, non sembri neanche un tunisino”; “Che bravo ragazzo Iancu, è proprio diverso dagli altri rumeni”. E’ interessante notare che chi parla in questo modo spesso non ha mai messo un piede in Tunisia o in Romania e ha costruito la sua opinione sui luoghi comuni. Quando ero ragazzina e leggevo i giornali non mi capacitavo del fatto che se a commettere un reato era un siciliano o un calabrese la provenienza geografica veniva subito evidenziata. Se si trattava di un lombardo o di un piemontese no. Mi sembrava un’ingiusta bizzarria. Oggi mi rendo conto che si trattava di un meccanismo difensivo e discriminatorio molto ovvio e assai poco evoluto: ci si illude di potersi difendere da ciò che si considera male o fa paura reificandolo e concentrandolo in un punto esterno a noi. Il punto utile più esterno, in questo senso, è proprio lo straniero. I media, per opportunismo e insipienza, sono i primi ad appropriarsi di questa dinamica proiettiva, falsa ma in grado di riscuotere un alto gradimento. Con ciò abdicano alla loro funzione informativa e, perché no, educativa. E io, da giornalista, non posso che rammaricarmene.

In un articolo pubblicato da Internazionale nell’autunno del 2009, il giornalista inglese David Randall, firma di spicco dell’Independent on Sunday, ricorda come gli immigrati e gli stranieri siano sempre stati l’ingrediente ideale degli articoli di cronaca nera. Randall torna alla Londra di fine ‘800 e alla nota vicenda di Jack lo squartatore e scrive: «All’epoca degli omicidi, avvenuti tra l’estate e l’autunno del 1888, si scatenarono tutti i pregiudizi dei giornalisti e dei lettori. Si era parlato molto del fatto che le mutilazioni subite dalle vittime erano così crudeli che, come scrisse un giornale londinese, “nessun inglese avrebbe mai potuto infliggerle”, e se ne trasse questa conclusione: “Deve essere stato un ebreo”. La stampa era anche convinta che lo squartatore fosse uno straniero. Tra le teorie più diffuse, c’era quella secondo cui si trattava di un estroso italiano o francese. A quei tempi i giornali riferivano qualsiasi diceria sui presunti comportamenti bestiali degli stranieri o di chiunque era considerato un estraneo. Il 2 ottobre 1888 il Times pubblicò un servizio del suo corrispondente da Vienna in cui scriveva: “Uno dei metodi che usano gli ebrei per espiare il peccato di aver avuto rapporti sessuali con una donna cristiana è ucciderla e mutilarla”. L’unico motivo di queste calunnie, naturalmente, erano il razzismo o i pregiudizi contro gli immigrati, che all’epoca in Inghilterra erano molto diffusi».

Grazie al cielo, scrive Randall concludendo l’articolo, quei tempi sono passati. In Inghilterra, forse sì, sono passati. In Italia, come abbiamo visto, sono ancora ben presenti. E noi che siamo qui dobbiamo prenderne atto e reagire. Non farci sommergere dall’onda della distrazione di massa. Rispetto al passato abbiamo strumenti in più (parlo da lettrice oltre che da giornalista). Viviamo nell’epoca del citizen journalism e del web 2.0. E’ più facile adesso fare controinformazione ma anche evidenziare gli svarioni della stampa ufficiale, come dimostrano gli studenti ferraresi o i Giornalisti contro il razzismo. Certo, c’è un’innegabile sproporzione di mezzi. Il potere pervasivo della televisione è incomparabilmente superiore a quello di un blog ma proprio per questo non bisogna abbassare la guardia. Ciascuno deve comprendere quale può essere la propria parte e farla. Qualcuno raccoglierà le storie e le racconterà. Altri potranno aiutarlo a divulgarle. Tutti abbiamo il dovere di rilevare e denunciare le falsità, le inesattezze, le complicità. Non si tratta solo di impedire che il razzismo consapevole o meno resti impunito, ma anche di costruire un humus culturale adatto al cambiamento e al riconoscimento delle migrazioni come fenomeni strutturali e della mixitè come valore. D’altra parte non c’è un’alternativa. La nostra società e la storia vanno in direzione della multiculturalità. I media e la politica sono in un ritardo pazzesco rispetto a questo. Ma non sarà la loro cecità a cambiare il corso degli eventi.

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