La recente ondata di rifugiati dal Nord Africa ha creato divisioni all'interno dell'Unione Europea, tra gli stati in prima linea nell'affrontare il problema e quelli che non sono direttamente coinvolti. Manca infatti un meccanismo che permetta di suddividere tra i vari paesi il peso di un afflusso improvviso di migranti. Eppure dalla crisi in Kosovo a oggi, l'Europa ha fatto dei passi avanti. È questo uno dei temi di cui si discuterà a Trento nelle giornate del Festival dell'Economia, a cui parteciperà anche l'autore di questo articolo.
Le rivolte nel Nord Africa hanno provocato una ondata di migranti che ha attraversato il Mediterraneo in cerca di rifugio dai conflitti. Dopo la relativamente pacifica cacciata dalla Tunisia del presidente Zine el-Abidine Ben Ali, seimila persone sono arrivate a Lampedusa e l'isola si è trasformata in un campo di accoglienza per i richiedenti asilo che tentavano di entrare in Italia.
LA SITUAZIONE
Con un numero dei migranti che continuava a crescere, il governo italiano ha cercato l'aiuto europeo su tre fronti: ha richiesto 100 milioni di euro come contributo per normalizzare la situazione a Lampedusa; ha chiesto al Frontex, l'Agenzia europea per la gestione della cooperazione operativa alle frontiere esterne, di rafforzare la sorveglianza lungo le coste del Nord Africa per evitare la partenza dei barconi con i migranti; infine ha chiesto agli altri paesi di condividere il peso della situazione attraverso una distribuzione ordinata su tutta l'Unione Europea dei richiedenti asilo.
E mentre si annunciava un possibile flusso di oltre 250mila richiedenti asilo, alle richieste di aiuto all’Unione Europea dell'Italia si sono unite quelle dei ministri dell'Interno di Francia, Spagna, Malta e Cipro. L'Unione ha così avviato l'Operazione Hermes, un'operazione guidata dall'Italia per rafforzare il pattugliamento in mare e prevenire sbarchi illegali sulle coste e nelle isole. L'11 aprile il ministro dell'Interno, Roberto Maroni, richiamandosi a una direttiva del 2001, ha chiesto agli altri paesi di condividere il peso dell'afflusso di migranti attraverso la concessione della protezione temporanea ad alcuni rifugiati. La richiesta è stata respinta dai singoli paesi e dalla Commissione Europea in quanto prematura.
I tunisini sono poi diventati 28mila e il governo italiano ha accordato loro un permesso di soggiorno temporaneo. Il 17 aprile, la Francia ha bloccato un treno che arrivava dal confine italiano con a bordo alcuni tunisini e ha poi minacciato di sospendere l’accordo di Schengen, che permette la libera circolazione a chi ha i documenti in regola. E mentre si aggrava la guerra civile in Libia e cresce l'incertezza politica in altri paesi del Nord Africa, la domanda da porsi è se l'Unione Europea sia preparata ad affrontare una crisi di rifugiati su larga scala sulle sue sponde meridionali.
DAL KOSOVO AL NORD AFRICA
Viene in mente un ovvio parallelo: dodici anni fa si manifestò un’altra crisi di rifugiati alle porte dell’Europa, in Kosovo. La situazione di allora era davvero simile a quella di oggi? E se è così, quale lezione se ne può trarre? Nel marzo 1999, in seguito ai bombardamenti della Nato, decine di migliaia di persone si ammassarono al confine di Blace per entrare in Macedonia. All’inizio, la Macedonia rifiutò l’ingresso, ma poco dopo la comunità internazionale, guidata da Stati Uniti e Norvegia, sotto la bandiera della Nato e con la collaborazione dell’Alto commissariato per i rifugiati (Unhcr) e di altre ong, lanciò un piano di evacuazione umanitaria (Hep). Alcuni rifugiati furono trasferiti nei campi in Macedonia e Albania, mentre circa 96mila persone furono distribuite in ventotto paesi riceventi e un numero ancora maggiore si spostò autonomamente. Ai rifugiati Hep fu riconosciuto lo status di rifugiato temporaneo e molti tornarono nel loro paese entro l’anno: erano prevalentemente albanesi e bosniaci, i serbi ebbero bisogno di più tempo per rimpatriare.
Questi eventi indussero l’Unione Europea a riprendere la riflessione su un meccanismo per affrontare un flusso improvviso di profughi. Il dibattito sulla cosiddetta condivisione del peso dei migranti era già iniziato ai tempi dell’ondata di rifugiati in Germania e Austria dopo il crollo dell’Unione sovietica, ma nel frattempo il Trattato di Amsterdam aveva iniziato a trasferire le decisioni su asilo e immigrazione dai governi nazionali all’Unione Europea. Il risultato della discussione è stata la direttiva sulla protezione temporanea del 2001, che indica i requisiti e le procedure di accoglienza per chi ha ottenuto un permesso temporaneo: in caso di un flusso improvviso, richiede “uno sforzo equilibrato” degli stati membri in uno spirito di solidarietà, ma non indica alcuna formula o meccanismo per la suddivisione tra paesi dei migranti.
LA QUESTIONE POLITICA
La suddivisione del peso dei rifugiati tra paesi ospiti non può che fondarsi su una nozione di “giustizia” nella distribuzione equa di rifugiati indesiderati, ma che non si possono respingere. In realtà, l’opinione pubblica è per lo più favorevole a garantire un rifugio sicuro a migranti che fuggono da una persecuzione individuale o da una violenza generalizzata. Soddisfare motivi altruistici verso i rifugiati offrendo loro il diritto d’asilo è una forma di beneficio per la popolazione della società ospite. E ci si può attendere che gli individui di un paese traggano qualche utilità dal sapere che i rifugiati sono al sicuro in altri paesi. Poiché questo beneficio è non concorrente e non escludibile, concedere asilo equivale (in qualche misura) a fornire un bene pubblico, ma i costi finanziari e sociali che ne derivano ricadono esclusivamente sul paese che accoglie i rifugiati.
Un semplice modello che cattura le due nozioni assume che dai rifugiati deriva una utilità marginale decrescente mentre il costo per rifugiato è costante. Quando i paesi decidono le loro politiche indipendentemente l’uno dall’altro non tengono conto del beneficio che i loro rifugiati rappresentano per i cittadini degli altri paesi. Così in un equilibrio di Nash, l’offerta di accoglienza per i rifugiati sarà insufficiente e in ogni paese la politica dell’immigrazione sarà più rigida di quanto non sarebbe se fosse decisa per tutti i paesi da un pianificatore sociale, tanto più se la pressione dei richiedenti asilo tra i diversi paesi non è equilibrata. La volontà di accettare i rifugiati può essere incrementata garantendo un sussidio finanziario per ridurre il loro costo marginale, ma un grave squilibrio può essere affrontato solo con una qualche forma di redistribuzione dei migranti tra i paesi ospiti.
Le politiche di redistribuzione dei rifugiati dovrebbero essere attuate da un’autorità centralizzata, ma i cittadini dell’Unione Europea sono pronti a concedere più potere su questi temi agli oscuri burocrati di Bruxelles, come qualcuno li definisce? Nel 2002, dopo l’ultima grande ondata di richieste di asilo, l’European Social Service ha chiesto a un gruppo di intervistati se preferivano che le politiche sull’immigrazione e l’asilo fossero decise a livello nazionale/locale o a livello internazionale/regionale. Il 57,5 per cento preferiva che le politiche fossero decise a un livello sovranazionale, dunque l’opposizione ad azioni politiche centralizzate non è così forte come talvolta si pensa. La pressione anti-immigrati viene spesso dai partiti dell’estrema destra ed è rilanciata dalla stampa cosicché i partiti più grandi sono costretti a rispondere alzando il tono delle parole e delle azioni. Dunque esiste un potenziale beneficio politico, almeno per i cittadini più moderati e per i partiti che li rappresentano, se la responsabilità dell’asilo si sposta dalla politica interna a livello europeo.
QUALCHE PASSO AVANTI
La crisi dei rifugiati dal Nord Africa è diversa dalla crisi del Kosovo sotto diversi punti di vista. Questa volta, gli Stati Uniti non sono in primo piano nelle operazioni Nato ed è improbabile che assumano il controllo dell’evacuazione dei rifugiati o che concludano accordi con altri paesi per la concessione della protezione temporanea. Nel caso del Kosovo, la Macedonia (che non è membro dell’Unione Europea) aveva molte più difficoltà ad affrontare un flusso di rifugiati rispetto a Italia e Francia (diverso, forse, il caso di Malta). Questa volta la responsabilità dell’azione ricade principalmente sull’Unione Europea.
E l’Europa è molto meglio organizzata a rispondere oggi di quanto non fosse prima della crisi del Kosovo. Nel 2000 è stato istituito il fondo europeo per i rifugiati per fornire sussidi a singoli paesi per la cura dei rifugiati e oggi può essere utilizzato per dare un aiuto finanziario in caso di emergenza. Il passo più recente, poi, è l’istituzione dell’European Asylum Support Office (Easo), con sede a Malta, divenuto operativo alla fine del 2010. Ha il compito di favorire lo scambio di informazioni e di diffondere le migliori pratiche, oltre a garantire un sistema di allarme precoce e meccanismi di aiuto agli stati sotto “particolare pressione”. Interessante notare che ci si aspetta anche che dia assistenza nella rilocalizzazione dei rifugiati ufficialmente riconosciuti, ma solo su “basi concordate” tra stati membri e con il consenso degli individui interessati.
Quello che manca è una qualsiasi formula o meccanismo per distribuire i rifugiati tra i paesi dell’Unione Europea. Erealisticamente non sembra probabile che i singoli stati non direttamente coinvolti dal fenomeno si offrano volontariamente per ospitare un numero significativo di rifugiati. Vanno riconosciuti maggiori poteri all’Easo, perché possa prendere in mano le situazioni e non solo intervenire a posteriori. Prima lo si fa, meglio è.
* Il testo in lingua originale è pubblicato su Vox.
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