02/12/11

Se “mia figlia vuol portare il velo”





Minigonna, rossetto, tacchi a spillo e capelli liberi e al vento. Eppure non è stata una semplice concessione, ma l’esito di una rivoluzione e di un movimento di femministe che hanno lottato, con testa e cuore, per ottenere il diritto di esprimersi liberamente e senza condizionamenti.

Fatima è stata madre e figlia di questo movimento, ruoli che rivendica con orgoglio. Sono passati anni e dall’Algeria si è trasferita in Francia. Oggi è separata dal marito, vive a Marsiglia e ha una figlia a Parigi, Jasmine, che si sta per laureare in medicina. Alla vigilia della proclamazione, la futura dottoressa rivela alla madre la sua decisione di portare il velo. Per Fatima è un fulmine a ciel sereno.

La passione, la dedizione e l’impegno con cui la donna ha cercato di trasmettere i suoi ideali alla creatura messa al mondo sembrano svanire nel nulla. Sarà questo pezzo di stoffa a separare ideologicamente le due donne che si confronteranno a lungo sul significato del hijab. La posizione della madre è inizialmente irremovibile perché il velo è segno di manipolazione e rappresenta un passo indietro, mentre Jasmine rivendica la sua scelta per una questione di appartenenza, richiamando non tanto la fede, quanto le tradizioni, le voci e i sapori di una terra mai realmente vissuta, ma solo conosciuta attraverso i racconti. Il diverbio assume un ritmo incalzante quando Fatima esprime l’esistenza di un filo di continuità tra il foulard, il burqa e l’infibulazione, quasi volesse rimproverare la figlia che non sente il corpo come un bene di sua proprietà.

L’equilibrio di tutte queste tradizioni è però in bilico, perché non è così semplice intuire il filo che separa il significato antropologico -che v’è insito- da quello religioso. Il primo punto d’incontro avviene paradossalmente quando s’intreccia la questione del coprirsi i capelli con quella dei moderni parametri che dobbiamo seguire per essere figli del nostro tempo.

Qual è dunque il vero scarto tra l’essere schiave di una tradizione plurisecolare che sembrerebbe conferire un rassicurante -seppur futile- senso di appartenenza e l’essere schiave di una moderna estetica che promette invano effimere libertà? Delle ragioni dell’una e dell’altra vengono lasciate le impronte attraverso due lettere conclusive. Alla fine dello scritto di Fatima, la madre rivela la sua appartenenza all’Occidente e quindi in lei vivono, nel nome di questa appartenenza, gli ideali della libertà. Una libertà che consente anche di non indossare il velo.

Emerge una forte contrapposizione con le generazioni immigrate che invece costringono le figlie a coprirsi il capo, nonostante il flusso verso la Francia e il resto d’Europa. A prescindere da tutto, la madre vuole appoggiare la figlia pur di non perderla, anche se rimangono implicite delle questioni che la tormentano. Perché indossare il hijab? Per Dio, la comunità o gli uomini? Forse per distinguersi? Dove sta la vera ragione che spinge la figlia di una convinta femminista come lei a tornare indietro, come per rinnegare le battaglie fatte da molte donne della sua stessa famiglia? Le risposte non sono nemmeno suggerite, ma il testo è assai denso e complesso e lo spettatore non può permettersi di perdere neppure una battuta.
La rappresentazione teatrale del testo di cui sopra (tratto da un libro di Leila Djitli) sarà in scena a Pavia stasera, ma ci sarà l’occasione di assistere allo spettacolo a Milano, al Teatro Out Off, dal 18.01 al 5.02.2012.


MIA FIGLIA VUOL PORTARE IL VELO

di Sabina Negri

regia Lorenzo Loris

con Caterina Vertova (Madre) e Alice Torriani (Figlia)

e con la partecipazione di Alessandro Haber

Musiche a cura di Didier De Cottignies

scena Daniela Gardinazzi

costumi Nicoletta Ceccolini

progetto visivo Dimitris Statiris

produzione Fondazione Teatro Fraschini di Pavia e Teatro Out Off

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