20/11/11

Boeri: riforma dell'immigrazione (a costo zero)



Dieci grandi riforme a costo zero. Le hanno individuate di Tito Boeri e Pietro Garibaldi nel libro "Le riforme a costo zero" edito da Chiarelettere, di cui pubblichiamo alcuni stralci dell'introduzione. Da una nuova politica dell'immigrazione al salario minimo, al voto ai sedicenni, alla selezione della classe politica: sono questi gli investimenti che possono cambiare il funzionamento della nostra economia. Per far ripartire l'Italia anche in piena crisi del debito pubblico. Perché il paese è ingessato e vecchio nello spirito riformatore ancor più che nella demografia.
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Nonostante l’Italia cresca meno dell’Europa da oltre un decennio e la necessità di riforme sia sentita da tutti gli italiani e conclamata da tutti i politici, le riforme non si fanno. Quale che sia il colore politico dei governi, quale che sia la congiuntura.
Non si fanno quando l’economia mondiale è al galoppo e neppure nei momenti di crisi quando, forse, sarebbe più facile trovare il consenso invocando le condizioni di emergenza.
NON CI SONO SOLDI
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Esistono moltissime e importantissime riforme che si possono fare «senza aumentare di un solo euro il debito pubblico». Sono le cosiddette «riforme a costo zero», il tema alla base di questo libro. In quasi tutti i campi cruciali dell’economia, è possibile cambiare le cose senza chiedere il conto a «Pantalone»: perché è vero che di soldi ce ne sono davvero pochi, ma è anche vero che si possono fare riforme decisive senza incidere sul bilancio pubblico. Alcune addirittura possono portare una riduzione della spesa pubblica proprio mentre aumenta il tasso di crescita potenziale della nostra economia.
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Abbiamo individuato dieci grandi riforme a costo zero, che non esauriscono certo il campo delle riforme possibili e desiderabili, ma vogliono innanzitutto essere esempi di come si può riformare anche in piena crisi del debito pubblico, di come addirittura questa crisi di credibilità possa servire a creare il consenso per portarle avanti.
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DALLA PARTE DEI GIOVANI
Diversi studi documentano che chi inizia la propria carriera con un periodo di disoccupazione (e chi non inizia del tutto pur cercando attivamente un lavoro) ha una vita lavorativa caratterizzata da frequenti periodi senza lavoro e con salari più bassi, al contrario di chi non vive questa esperienza (inizialmente i salari sono fino al 20 per cento più bassi, poi il divario si riduce al 5 per cento, ma solo nel caso in cui non si perda nuovamente il lavoro).
È, quindi, una condanna che ci si porta dietro per tutta la vita, fatta di salari più bassi, rischi maggiori di perdere il posto di lavoro e anche peggiori condizioni di salute rispetto a chi il lavoro non l’ha mai perso. A questi danni bisogna poi aggiungere quello di ricevere una pensione molto più bassa al termine della propria vita lavorativa, perché chi entra oggi nel mercato del lavoro avrà una pensione dettata dalle regole del sistema contributivo, quindi legata ai salari che ha ricevuto durante l’intero arco della vita lavorativa.
Per questo oggi è fondamentale fare riforme dalla parte dei giovani. È una questione di equità, ma anche di efficacia.
Perché saranno loro a darci il nuovo motore di cui abbiamo bisogno per far ripartire l’economia.
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Liberando il lavoro potremmo attenderci effetti molto più importanti che in passato sui tassi di partecipazione, sulla percentuale di italiani che lavora, genera reddito e paga le tasse. Il fatto che gli italiani praticamente abbiano già pagato una patrimoniale con questa crisi ci dice che ci potrebbero essere effetti virtuosi anche sulla domanda di beni da politiche che liberano il lavoro. Sono, infatti, proprio i consumi di chi ha visto decurtare le proprie ricchezze a essere calati di più nella crisi.
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Sia ben chiaro, i «costi zero» delle riforme riguardano soltanto il bilancio dello Stato e il deficit della pubblica amministrazione. Per alcune persone ci saranno dei costi.
Pensiamo semplicemente alla proposta di riduzione del numero dei parlamentari e all’impossibilità di cumulare i compensi da parlamentare con quelli di attività extraparlamentari.
Per i parlamentari coinvolti, si tratterà certamente di una riforma con dei costi! Inoltre, si tratta di costi netti.
Alcune delle riforme proposte comportano cambiamenti nella composizione delle entrate o della spesa, a saldo zero o positivo. Tutte, nel corso del tempo, dovrebbero portare a benefici netti rilevanti in termini di crescita del Prodotto interno lordo e delle entrate fiscali.
LE DIECI PROPOSTE
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Ci limiteremo in questa introduzione a fornirvi i titoli delle riforme.
La prima riforma riguarda il governo dell’immigrazione, sin qui solo subita dal nostro paese. Il capitale umano che arriva da noi attraverso l’immigrazione è una risorsa troppo importante per essere gestita in questo modo. Occorre investire nell’integrazione degli immigrati riducendo al contempo i costi per chi li accoglie.
La seconda riforma affronta la transizione tra scuola e lavoro, cerca di prosciugare il bacino immenso di giovani che oggi in Italia non sono né al lavoro né impegnati in un corso di studi e si basa su due cardini fondamentali: il contratto unico a tutele progressive e l’apprendistato universitario.
La terza riforma riguarda la contrattazione salariale e l’introduzione di un salario minimo. Può servire anch’essa a migliorare l’utilizzo del capitale umano e a evitare forti emorragie occupazionali durante le recessioni. Nel riformare la contrattazione è fondamentale affrontare il problema delle rappresentanze sindacali. Si può fare molto a partire dall’accordo raggiunto a fine giugno 2011 da Cgil, Cisl, Uil e Confindustria. Servirà a migliorare la produttività, ad aumentare il lavoro nel Mezzogiorno e ad attrarre più investitori verso il nostro paese.
La quarta riforma riguarda la macchina dello Stato e gli incentivi dei dipendenti pubblici. Si tratta di installare un nuovo motore per la macchina dello Stato incentivando comportamenti virtuosi nel pubblico impiego, premiando le amministrazioni (piuttosto che i singoli), anziché introdurre nuove regole cervellotiche quanto inutili come fatto sin qui.
La quinta riforma guarda al lavoro autonomo e, in particolare, agli ordini professionali. Si tratta di avere professionisti più liberi e ordini trasparenti: sono tanti piccoli cambiamenti di regole che, in sé, possono apparire insignificanti e di scarso impatto sulla crescita, ma che in realtà, nel loro insieme, possono essere dirompenti contro il conservatorismo di chi ha in mano le leve del potere ai vari livelli e raccoglie una fetta consistente del nostro capitale umano.
La sesta riforma serve a incoraggiare il lavoro di più persone nella stessa famiglia, rendendole meno vulnerabili a eventi avversi e attivando il capitale umano oggi largamente inutilizzato delle donne. È una miniriforma fiscale che trasforma le detrazioni per coniugi e gli altri familiari a carico in sussidi condizionati all’impiego. Servirà anche a rafforzare il potere contrattuale delle donne nelle scelte di suddivisione delle responsabilità familiari.
La settima riforma si rivolge al sistema pensionistico e prevede l’estensione a tutti delle regole del metodo contributivo nel determinare l’età di pensionamento, nonché le riduzioni e gli incrementi delle pensioni associati a un ritiro dalla vita lavorativa prima o dopo aver raggiunto i 65 anni di età. Aumenterà il lavoro di giovani e anziani e darà alle famiglie maggiori opportunità di ricostruire, prolungando la vita lavorativa, i patrimoni intaccati dalla crisi. Completando la transizione al sistema contributivo potremo finalmente scrivere la parola fine sulle microriforme delle pensioni che continuano a turbare i sonni degli italiani.
L’ottava riforma si colloca all’intersezione fra mercato del lavoro e mercati finanziari. Riguarda l’accesso al credito per chi vuole crescere, per le imprese che vogliono diventare più grandi, e richiede di procedere su piani diversi: la riforma della legge sull’usura, il superamento delle interconnessioni presenti a vari livelli nel nostro sistema di corporate governance, una authority per le fondazioni e la separazione fra banche e società di gestione del risparmio.
Le riforme sin qui elencate avranno effetti sulla crescita nel corso del tempo, cambiando gli incentivi di chi lavora e produce.
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È fondamentale accompagnare queste riforme con misure che guardano alla qualità delle istituzioni e che creano consenso attorno alle politiche della crescita, rendendo il mutamento irreversibile. Questo è il significato delle ultime due riforme che proponiamo.
La nona riforma guarda proprio alla selezione della classe politica. Proponiamo di avere meno politici sia a livello nazionale, sia locale, per sceglierli meglio. Riteniamo utile anche impedire ai politici di cumulare i compensi da parlamentari con quelli di altre attività e di modificare le regole di determinazione dei loro compensi indicizzandoli alla crescita del reddito pro capite degli italiani.
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La decima riforma, infine, vuole costruire una costituency, un partito a favore delle riforme. Lo fa allargando il voto ai sedicenni e cambiando i criteri di calcolo delle quiescenze in modo tale da incentivare la fascia più consistente del nostro elettorato, i pensionati, a sostenere politiche per la crescita.
Se tutte le riforme indicate in precedenza fossero messe in atto, noi pensiamo che l’Italia sarebbe certamente sulla buona strada per ritrovare lo «spirito della crescita».
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Per tornare a crescere è necessario investire. Questo non significa solo trovare i soldi per costruire ponti, autostrade e ferrovie. Significa soprattutto investire in riforme che cambino il funzionamento della nostra economia. L’Italia è un paese ingessato anche e soprattutto perché è un paese «vecchio», nello spirito riformatore ancor più che nella demografia.
Per usare un’espressione di kennediana memoria, ciascun italiano «dovrebbe chiedersi non tanto cosa il governo può fare per tornare a crescere, ma anche e soprattutto cosa ciascuno di noi può fare per tornare a crescere».

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