20/02/11

3 parole su Lampedusa


TRE PAROLE SU LAMPEDUSA

di Maurizio Ambrosini

La crisi nordafricana bussa alle porte dell'Europa. E a quelle dell'Italia in particolare, con il ministro Maroni che prevede l'arrivo di 80mila migranti. Mentre nelle cronache risuonano tre parole: clandestini, emergenza, Europa. Utilizzate a sproposito, come spesso accade. Perché ancora una volta messaggi propagandistici, speculazione politica, impreparazione voluta e retorica dell'emergenza prendono il posto di politiche serie e lungimiranti. Nel breve periodo, rendono di più.


La crisi nordafricana bussa alle porte dell’Europa. E in primo luogo a quelle dell’Italia, per posizione geografica e storia destinata a un ruolo di ponte tra le due sponde del Mediterraneo. Oltre 5.200 migranti sono sbarcati nel giro di pochi giorni a Lampedusa, e il ministro Maroni già ne calcola 80mila in procinto di arrivare, non sappiamo sulla base di quali informazioni. Tre parole risuonano insistentemente nelle cronache: clandestini, emergenza, Europa. Proviamo ad analizzarle con l’aiuto di qualche dato.



CLANDESTINI O RIFUGIATI?



Anzitutto, l’etichetta di “clandestini”, applicata senza distinzione ai migranti che arrivano dal mare senza le prescritte autorizzazioni, appare una sorta di criminalizzazione preventiva di massa. Tutte le crisi internazionali provocano ondate di profughi, ma se siamo disposti a chiamare “rifugiati” i richiedenti asilo che partono dall’Afghanistan (calcolati in 2,9 milioni nel 2009) o dall’Iraq (1,8 milioni) e si dirigono verso i paesi confinanti, diventiamo molto più severi quando i flussi si dirigono verso il nostro paese. Bisognerebbe forse ricordare che l’80 per cento dei rifugiati si ferma nel cosiddetto Terzo Mondo, noi ne accogliamo modeste percentuali.

Il termine “clandestini” nasconde quindi i richiedenti asilo legittimi. In Italia nel 2008, anno di picco per gli sbarchi con oltre 30mila casi, il 75 per cento aveva presentato una domanda d’asilo e circa la metà è riuscito a ottenere una forma di protezione internazionale. Dunque, uno sbarcato su due è stato ritenuto dal nostro governo meritevole di protezione. Al contrario, quando nel 2009 sono entrati in vigore i controversi accordi con la Libia (otto respingimenti, 800 persone coinvolte e rispedite verso un destino come minimo incerto), il numero di richieste d’asilo in Italia è diminuito del 42 per cento, tra le proteste dell’agenzia dell’Onu deputata ad assistere i rifugiati (Unhcr). Si usa quindi l’etichetta di “clandestini” (ripresa peraltro anche da un quotidiano progressista come Repubblica) per poter chiudere le porte a chi chiede asilo ai sensi delle convenzioni internazionali siglate dal nostro paese. Quelle che identificano una nazione come democratica e rispettosa dei diritti umani.

Tra gli sbarcati ci sono senz’altro migranti mossi da motivazioni economiche, forse anche dei delinquenti, ma ci possono essere pure persone che hanno diritto a chiedere e a ricevere asilo. Gli uni vanno distinti dagli altri, ed è possibile farlo soltanto dopo averli ascoltati. Negare a priori l’esistenza di rifugiati, anzitutto con il linguaggio a cui si ricorre vuoi con leggerezza, vuoi in modo consapevole e mirato, è una lesione di diritti umani fondamentali.



EMERGENZA O IMPREPARAZIONE?



Il secondo termine chiave è “emergenza”. Come ha notato forse soltanto l’Osservatore Romano, la cosiddetta emergenza è la conseguenza dell’impreparazione. A Lampedusa è stato chiuso il centro d’accoglienza e ogni presidio destinato al soccorso dei rifugiati, compreso quello di Medici Senza Frontiere. La retorica dell’emergenza serve però a invocare misure straordinarie, finanziamenti, poteri discrezionali, regole flessibili: il triste armamentario della gestione all’italiana di problemi prevedibili e governabili.

La terza parola ricorrente in questi giorni consiste nel rimando all’Europa. Più precisamente, nel chiedere soldi e pattugliamenti all’agenzia europea Frontex, istituita nel 2004 per il controllo congiunto delle frontiere, con un costo nel 2008 di 42 milioni di euro. L’Europa, secondo i portavoce governativi e i giornali che ne riprendono le dichiarazioni, sarebbe lontana e inerte.

Il problema in realtà rimanda a un serio nodo politico: l’elaborazione di una politica europea condivisa sulla complessa tematica dell’immigrazione da anni segna il passo. Gli Stati sono gelosi delle proprie prerogative, temono di perdere anche solo brandelli di quel controllo dell’accesso al territorio nazionale che rappresenta uno dei residui simboli della propria sovranità. Un simbolo da sbandierare davanti agli occhi dei cittadini-elettori, che vedono come ogni giorno la sovranità nazionale sia intaccata dalla globalizzazione economica. Per questo, fra l’altro, l’Italia ha respinto seccamente gli interventi delle istituzioni europee sui respingimenti in mare.

Se fossimo meno provinciali, potremmo ricordare che quando la Germania o la Francia o i paesi scandinavi accoglievano migliaia di profughi, ci siamo ben guardati dall’accorrere in loro aiuto, ritenendo che l’accoglienza dei rifugiati fosse una questione dei singoli Stati nazionali. Attualmente in Italia vivono 55mila rifugiati, contro i 593mila della Germania. Non sarà facile convincere il governo tedesco a contribuire alle spese della cosiddetta “emergenza” di Lampedusa.

Ancora una volta, messaggi propagandistici, speculazione politica, impreparazione (voluta), retorica dell’emergenza, prendono il posto di politiche serie e lungimiranti. Nel breve periodo, rendono di più.

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