Intervento alla Prima Conferenza Nazionale sull'Immigrazione del PD
Le migrazioni sono antiche quanto l’umanità, se è vero che tutti abbiamo origini africane. Dalla ricerca archeologica, ai poemi omerici, alle testimonianze bibliche, sappiamo che movimenti di singoli e gruppi, scambi commerciali, colonizzazioni pacifiche e invasioni cruente, hanno costruito la storia delle civiltà umane. La sedentarietà faticosamente conquistata nel neolitico, con l’invenzione dell’agricoltura e la nascita delle prime forme urbane, non è mai stata assoluta. Il movimento di popolazioni, nelle sue varie forme e con diversi esiti, ha sempre accompagnato la formazione di società stabili.Oggi nuovamente le migrazioni si presentano come uno dei fattori più visibili e controversi di cambiamento delle nostre società. Negli spazi urbani, nel mercato del lavoro, nelle aule scolastiche, nelle messe domenicali, nei circuiti delle attività illegali, avvengono sostituzioni e mescolanze di vecchi e nuovi protagonisti. E i nuovi arrivati sono quasi sempre più poveri di quanti si erano già insediati in precedenza, oltre che diversi per lingua, aspetto fisico, usanze, credenze e pratiche religiose. La percezione diffusa è quella di uno sconvolgimento dell’ordine sociale. Per alcuni, è l’alba di un mondo nuovo, all’insegna del meticciato e della fratellanza universale; per i più, è l’inizio di un’invasione. Nel complesso, i migranti rappresentano all’incirca, il 3% della popolazione mondiale: in cifre, intorno ai 214 milioni su oltre 6 miliardi di esseri umani (Caritas-Migrantes, 2010), mentre per l’Europa a 27, la stima si aggira intorno ai 25 milioni di migranti su 490 milioni di abitanti, dunque all’incirca il 5%. In Italia i dati più recenti parlano di 5,3 milioni di persone, comprese 500.000 (stimate) in condizione irregolare. Si tratta di una quota relativamente ridotta dell’umanità, ma aspetti come la concentrazione in determinate aree di destinazione, la rapidità della formazione di nuovi flussi, le modalità drammatiche di una parte degli arrivi, accrescono il senso di smarrimento e di minaccia.
L’innalzamento delle barriere all’entrata non ferma del tutto gli ingressi, semmai provoca la ricerca di porte alternative. Nello sforzo di sigillare i confini, nel nostro paese è stato reso illegale nel corso del 2009 non solo l’ingresso non autorizzato (già punito dalle leggi), ma anche la permanenza di chi riesce in vario modo a superare la frontiera, spesso con documenti regolari (il visto turistico), e prolunga la sua permanenza sul territorio. Gli immigrati si trasformano così negli ancora più temuti irregolari, o peggio, clandestini, condannati a vivere per anni nella penombra dell’incertezza e della precarietà, malgrado si accollino, nella maggioranza dei casi, mansioni che contribuiscono al benessere delle società riceventi, come la cura di anziani e bambini. Poi, giacché è impossibile espellere centinaia di migliaia di persone, è controproducente privare del loro lavoro le società riceventi e i sistemi economici, è politicamente dannoso criminalizzare le famiglie che ne accolgono molti, si impone la necessità delle sanatorie. Così in ogni caso è avvenuto in Italia: dopo mesi di campagna politica contro i cosiddetti clandestini, la politica ha preso atto che molti essi sono in realtà lavoratori dei servizi di assistenza e accudimento in ambito familiare. Detto in altri termini: i clandestini che gran parte dell’opinione pubblica vorrebbe scacciare, sono per la maggior parte lavoratori e lavoratrici che gli stessi italiani hanno accolto, assunto, protetto e a volte sfruttato.
Ad un certo momento, si afferma l’esigenza di sanarne la situazione. In Italia nel 2009, malgrado le retoriche di ogni tipo, per ogni immigrato irregolare espulso quasi 20 hanno potuto sanare la propria posizione. Si è trattato della sesta sanatoria in 22 anni (le ultime due promosse da governi di centro-destra), oltre alle sanatorie mascherate da decreti flussi. I lavoratori immigrati sono passati quasi sempre attraverso una fase di soggiorno irregolare, e si sono ormai abituati a metterla in conto.
Negli ultimi decenni gli spostamenti attraverso le frontiere si sono accentuati e diversificati. Nuovi paesi sono entrati nella geografia dei luoghi di partenza e di arrivo, altri si sono contraddistinti piuttosto come spazi di transito. Diversi paesi di confine con le aree più sviluppate, come il Messico, la Russia, il Nord Africa, sono diventati ormai, nello stesso tempo, luoghi di partenza, di arrivo e di passaggio (magari dopo anni di attesa) di flussi migratori. Altri, come l’Italia e più in generale l’Europa meridionale, hanno cambiato status nella geografia mondiale della mobilità umana, passando dal rango di luoghi di origine dei flussi a quello di contesti di destinazione. Presi alla sprovvista, avendo cercato per un certo periodo di non vedere quanto stava avvenendo, hanno faticato e ancora stentano ad assumere una consapevolezza adeguata del fenomeno. Nel caso italiano, più che in Spagna, Grecia o Portogallo, si è assistito alla formazione di un circuito di mutuo rafforzamento tra inquietudini popolari diffuse nei confronti dell’immigrazione e politicizzazione della questione, assurta al rango di tema primario nelle campagne elettorali. Soltanto nel nostro paese, di fatto, forze politiche che inalberano l’ostilità verso gli immigrati come un vessillo hanno un peso elettorale decisivo e occupano posizioni di rilievo nella compagine governativa.
Cominciamo dal linguaggio. Noi definiamo come “immigrati” solo una parte degli stranieri che risiedono stabilmente e lavorano nel nostro paese. Ne sono esentati non solo i cittadini francesi o tedeschi, ma anche giapponesi e coreani, anche allorquando ricadono nella definizione convenzionale di immigrato adottata dall’ONU: una persona che si è spostata in un paese diverso da quello di residenza abituale e che vive in quel paese da più di un anno.
Lo stesso vale per il termine extracomunitari, un concetto giuridico (non appartenenti all’Unione europea), diventato invece sinonimo di “immigrati”, con conseguenze paradossali: non si applica agli americani, ma molti continuano a usarlo per i rumeni. Immigrati (ed extracomunitari) sono dunque ai nostri occhi soltanto gli stranieri provenienti da paesi che classifichiamo come poveri, mai quelli originari di paesi sviluppati. E’ interessante notare che alcuni di essi hanno cambiato status nel volgere degli ultimi decenni (è appunto il caso di Giappone, Corea, Taiwan ), così come del resto sta avvenendo, per fortuna, per gli emigranti italiani all’estero.
Hanno perso l’ingombrante etichetta di immigrati, entrando in quella dei “nostri amici” sempre ben accetti. Di conseguenza, il confine mentale che separa immigrati e stranieri graditi è in realtà mobile ed entro certi limiti poroso. Si può prevedere che tra venti o trent’anni cinesi, indiani e brasiliani non saranno più considerati immigrati. Un potente fattore di ridefinizione dello status dei cittadini esterni è rappresentato dai progressivi allargamenti dell’Unione europea.
Non tanto perché ipso facto la nuova condizione giuridica cambi la percezione sociale dei cittadini dei paesi neo-comunitari (basti pensare ai rumeni), ma piuttosto perché lo sviluppo economico favorito dall’ingresso nell’Unione e dalle politiche comunitarie sta avvicinando progressivamente le condizioni di vita di questi paesi a quelle dei partner europei. Così è avvenuto del resto, in tempi abbastanza rapidi, per Spagna, Portogallo, Grecia, Irlanda.
Un altro aspetto su cui vale la pena di soffermare l’attenzione riguarda la condizione singolare dei cittadini di paesi di per sé classificabili come luoghi di emigrazione, ma individualmente riscattati dall’eccellenza nello sport, nella musica, nell’arte, o quanto meno negli affari. Neanche ad essi si applica l’etichetta di “immigrati”. Come ha detto qualcuno, “la ricchezza sbianca”.
A queste percezioni sociali diffuse si può collegare la differente accettabilità degli stranieri residenti, anche da diversi anni, sotto il profilo della con-cittadinanza. Ci trasferiamo così sul piano delle norme giuridiche, che riflettono molto chiaramente le preferenze sociali. La legge italiana del ’92 che regola la materia, votata dal parlamento in modo quasi unanime, prevede che per poter chiedere di diventare italiani sia sufficienti quattro anni di residenza per gli stranieri provenienti da alcuni paesi, mentre ne occorrano dieci per gli altri, contro i cinque della normativa precedente.
La stessa legge, prevedendo una corsia molto facilitata di recupero della cittadinanza per i discendenti degli emigranti italiani all’estero, definisce i confini della nostra “nazione” in termini sostanzialmente etnici. Giovanna Zincone (2006) ha parlato al riguardo di “familismo legale”: l’italianità sembra essere prima di tutto una questione di sangue, tramandato per discendenza, o una qualità che tutt’al più può essere acquisita per matrimonio, grazie al legame con un partner appartenente alla stirpe (si sarebbe tentati di dire: alla tribù) degli italiani: soltanto nel 2009 le naturalizzazioni per residenza hanno superato quelle per matrimonio (23.000 contro 17.000). Fino ad allora era sempre accaduto il contrario.
Nello stesso tempo, tra il 1998 e il 2004 l’opportunità di recupero della cittadinanza da parte di discendenti di antichi emigrati ha prodotto silenziosamente oltre mezzo milione di nuovi cittadini, tra cui spiccano gli italiani di ritorno provenienti dall’Argentina con circa 236.000 acquisizioni e dal Brasile con 119.142. Va notato che neppure questi, qualora scelgano di venire effettivamente a vivere in Italia, anziché utilizzare il passaporto italiano per cercare fortuna in Spagna, Gran Bretagna o Stati Uniti, vengono definiti come “immigrati”, benché possano incontrare sul piano sociale difficoltà non molto diverse dagli stranieri classificati come tali.
Per esempio, il mancato riconoscimento dei titoli di studio (a differenza di quanto avviene in Spagna), li sospinge verso le posizioni inferiori nel mercato del lavoro.
Questa solidarietà “nazionale” affonda le sue radici nell’età romantica, quando è nato il concetto stesso di “nazione”, vista come unità di sangue (gli antenati comuni), di territorio (definito da confini supposti come “naturali”), di lingua (nazionale, contrapposta ai “dialetti” regionali e locali) e (per molti) di religione. Ma più che un dato spontaneo, come i vari nazionalismi hanno sempre cercato di sostenere, si tratta di una costruzione socio-politica, attivamente perseguita dagli Stati-nazione moderni, che non hanno lesinato gli sforzi per realizzare una coincidenza tra popolazione residente, territorio compreso entro i confini e comunità nazionale , o più semplicemente per far coincidere le frontiere politiche con quelle culturali.
Vari mezzi sono stati nel tempo dispiegati a questo scopo: l’educazione pubblica, la coscrizione obbligatoria, i rituali civili (bandiera, inno nazionale, altare della patria….), il culto degli eroi e delle ricorrenze solenni della storia nazionale, le squadre nazionali nelle competizioni sportive, senza dimenticare il ruolo dei mezzi di comunicazione di massa e le istituzioni del welfare, che dispensano provvidenze sociali sulla base appunto dell’appartenenza alla comunità nazionale. Come ha scritto Castles, “ ogni cittadino è considerato appartenente ad un solo Stato-nazione, e quello Stato-nazione è considerato capace di includere come cittadini tutti gli individui che risiedono in maniera permanente sul suo territorio.
Ogni residente nel paese è inteso come appartenente, mentre il resto del mondo è escluso: gli stranieri non possono appartenere” (2005: 204).
L’adozione, eventualmente l’invenzione, e la standardizzazione di una lingua nazionale, possibilmente diversa da quella delle altre nazioni, insegnata nelle scuole pubbliche controllate dallo Stato, è stata uno degli strumenti più influenti per la costruzione di comunità nazionali dotate di un certo grado di omogeneità interna e separate dalle altre. Una vecchia battuta che circola tra i linguisti, quando si vuole spiegare la differenza tra lingue e dialetti, afferma che una lingua è “un dialetto con un esercito”, ossia una costruzione politica, attuata dagli Stati grazie al potere coercitivo di cui dispongono, rispetto alla fluidità delle parlate dialettali.
In epoca recente, radio e televisione hanno fornito un contributo decisivo all’unificazione linguistica di nazioni come la nostra, in cui i dialetti (o lingue regionali?) hanno conservato a lungo, e talora conservano, una grande vitalità. Si può aggiungere che fino alla fine del XIX secolo, era più facile entrare in un altro paese che uscire dal proprio, e concetti come quelli di passaporto, visto d’ingresso, polizia di frontiera, sono tipici prodotti della modernità. Si sono imposti di fatto soltanto dopo la prima guerra mondiale.
Lo stesso concetto di Stato-nazione combina la concezione razionale e fredda dello Stato moderno con l’idea romantica di nazione, calda, suggestiva, carica di componenti emotive. A loro volta le nazioni si sono formate trascendendo i confini di unità sociali più ristrette, locali, regionali, linguistiche: “La nazione è quindi sia postetnica, in quanto nega la salienza delle vecchie distinzioni etniche e le considera come appartenenti ad un oscuro e remoto passato prestatuale, sia superetnica, in quanto delinea la nazione come una specie di etnia nuova e più grande” (Baumann, 2003: 39).
Per questa ragione, gli Stati-nazione moderni non sono affatto religiosamente neutrali come pretendono di essere, ma cercano di suscitare sentimenti comunitari di tipo para-religioso, forgiando una sorta di mistica patriottica, attraverso i rituali e le celebrazioni che abbiamo ricordato. L’idea ottocentesca di “religione civile”, tornata in auge negli ultimi anni, allude a questa pretesa delle ideologie nazionali, di spingere i cittadini al culto di un complesso di valori che hanno al centro il destino della patria.
L’invenzione della nazione, con i suoi corollari di eguaglianza e fratellanza fra i membri (notiamo di nuovo l’impiego di termini tipici delle comunità religiose), riporta ad un livello più ampio l’idea di una demarcazione tra “noi”, internamente omogenei perché unificati dal sentimento nazionale e dalle istituzioni statuali, e gli “altri”, i diversi, perché non membri della nostra compagine nazionale. In questo senso, le nazioni possono beneficiare del senso ancestrale, profondo quanto irriflesso, di solidarietà tra i membri del gruppo, che ha come contrappeso la diffidenza verso gli estranei. Non si comprenderebbe la fortuna dell’idea di nazione, giunta ad essere considerata un dato naturale e indiscusso, senza questo retroterra antropologico, rielaborato, ampliato e codificato nella forma dei confini nazionali. La modernità, attraverso l’istituzione di frontiere, cittadinanze e complessi apparati statali, è intimamente legata a questi processi: è stata costruita sull’espulsione o sull’assimilazione, sia fisica sia simbolica, dell’altro, nel nome della purezza religiosa, etnica, culturale e scientifica.
Un recente numero della rivista “Mondi migranti” su “le migrazioni nel Mediterraneo” restituisce il senso di uno spazio marittimo che nel passato ha unito popoli diversi e prodotto processi di scambio e sincretismo tra mondi culturali ricchi di peculiarità, e anche oggi, malgrado la modernizzazione, contribuisce a generare e rivitalizzare le dinamiche socio-culturali legate alle migrazioni. Nello stesso tempo però l’irrigidimento delle frontiere e dei controlli tende a separare e contrapporre territori che un tempo, tra conflitti e commerci, trovavano motivi per percepirsi come facenti parte di uno spazio condiviso. Da tutto ciò discende la conseguenza che più ci interessa: se gli estranei che attraversano i confini sono percepiti come poveri che pretendono di stabilirsi sul nostro territorio, sulla terra di quella grande tribù che è la nazione, scatta la paura antica dell’invasione e del saccheggio2.
Questa paura trova un’espressione paradigmatica nella diffidenza, peraltro reciproca, tra popolazioni sedentarie e popolazioni nomadi o presunte tali, con il suo contorno di radicati pregiudizi, leggende nere ed espulsioni violente. Si può dunque intuire perché il presidio delle frontiere e dell’accesso al territorio è investito di tanta risonanza, al punto da essere spesso considerato un banco di prova dell’efficienza e della serietà delle istituzioni dello Stato: uno dei principali simboli della sovranità degli Stati nazionali è il controllo dei confini, ben delimitati dai trattati internazionali e sorvegliati dalle forze preposte alla salvaguardia della sicurezza nazionale. La regolazione dell’ammissione sul territorio degli stranieri è pertanto uno dei compiti che gli Stati perseguono con maggiore impegno e con l’ausilio di tecniche sempre più sofisticate. La stessa perdita di capacità di governare processi economici e produttivi che trascendono le frontiere, conduce a investire risorse simboliche e materiali sul controllo della mobilità umana (dai paesi classificati come poveri), al fine di recuperare legittimità agli occhi dei cittadini-elettori.
L’immigrazione, dunque, non è solo una questione di movimenti di popolazione. E’ una vicenda ben più complessa, in cui intervengono gli Stati riceventi, con le loro politiche di categorizzazione degli stranieri più o meno graditi e di controllo dei confini, le reazioni delle società nei confronti dei nuovi arrivati, i paesi d’origine con la loro reputazione più o meno positiva, e naturalmente i migranti stessi, impegnati nella ricerca di smagliature e interstizi che consentano l’accesso ai territori in cui sperano di trovare miglior fortuna che in patria. Va ribadito che non esistono Stati nazionali, per quanto democratici, che non presidino le frontiere e non controllino gli ingressi sul territorio nazionale, con le conseguenze relative: richiesta di passaporti e permessi di soggiorno, complessi regimi di regolamentazione dell’immigrazione, procedure di trattenimento ed espulsione degli stranieri indesiderati, anche se di fatto applicate solo ad una parte dei casi potenzialmente pertinenti. Il problema consiste nel trovare un equilibrio tra la sorveglianza dell’accesso al territorio nazionale, gli interessi che dall’interno dei confini premono per l’apertura, il pacchetto di diritti umani che dei paesi democratici, firmatari di solenni convenzioni internazionali, devono comunque garantire a richiedenti asilo, rifugiati, stranieri residenti anche temporaneamente, compresi coloro che si trovano sprovvisti di regolari autorizzazioni al soggiorno.
Proprio in funzione del contrasto tra crescente domanda di mobilità e crescente restrizione degli ingressi, si è formata un’economia della frontiera e degli attraversamenti non autorizzati, che offre vari tipi di servizi a quanti desiderano passare dalla sponda “povera” alla sponda “ricca” della geografia di un mondo drammaticamente sperequato. Fabbricazione di documenti falsi, rischiosi passaggi marittimi e terrestri, matrimoni combinati, ma anche consulenza giuridica per il recupero della cittadinanza, per l’ottenimento di un qualche tipo di visto (in primo luogo, turistico), o per l’individuazione di qualche spiraglio semi-legale per l’ingresso, sono alcune delle attività offerte ai richiedenti.
La frontiera per alcuni è diventata una risorsa, non più per il vecchio contrabbando di merci ma per il più moderno transito di esseri umani. Il viaggio, a sua volta, sta ridiventando per un numero crescente di migranti un’esperienza rischiosa, travagliata, che può durare mesi o addirittura anni, ricorrendo a mezzi di fortuna3, ad espedienti di ogni sorta, ai servizi di passatori più o meno professionali, a soste prolungate in zone di transito per procurarsi le risorse necessarie per la tappa successiva. L’innalzamento della rigidità dei controlli ha poi un effetto facilmente prevedibile: provoca un accrescimento della sofisticazione e del livello di organizzazione criminale dell’industria dell’attraversamento delle frontiere. Il fatto più grave, in questa spirale, è l’asservimento in varie forme di prestazioni forzate di coloro che non possono pagare il servizio. Favoreggiamento dell’immigrazione non autorizzata e traffico di esseri umani sono fenomeni diversi, ma di fatto risultano spesso intrecciati, tanto da poter essere inquadrati come i due estremi di un’unica attività.
La costruzione sociale e politica della figura dell’immigrato ha poi conseguenze importanti sotto il profilo delle rilevazioni statistiche, che sono tutt’altro che operazioni obiettive e neutrali. Abbiamo già ricordato il caso dei discendenti di antichi emigranti, che in Italia come in Germania e in vari altri paesi non sono annoverati tra gli immigrati; oppure quello dei coniugi che acquistano la cittadinanza per matrimonio. Un altro caso che influisce molto sulla raccolta dei dati è quello delle seconde generazioni, compresi i nati sul territorio nazionale da genitori immigrati (le seconde generazioni in senso stretto): stranieri in Italia, cittadini per diritto di suolo negli Stati Uniti o in Canada, quasi altrettanto automaticamente in Francia, in una situazione intermedia in Germania, e si potrebbe continuare.
Da quanto ho cercato di illustrare, si può già intuire che il panorama delle migrazioni contemporanee è alquanto eterogeneo e differenziato. Senza addentrarmi in una classificazione analitica, mi limito a ricordare che i migranti non sono soltanto persone alla ricerca di modesti lavori manuali per sopravvivere. Nel mondo sviluppato una categoria di crescente importanza è quella dei migranti qualificati, ossia in possesso di competenze intellettuali, professionali, imprenditoriali, che sono oggi oggetto di specifiche politiche di reclutamento all’estero, ovvero di una sorta di “caccia ai cervelli. A livello europeo, il commissario Frattini ha lanciato nell’autunno 2007 l’iniziativa di una “carta blu europea” per l’ingresso di migranti altamente qualificati, facendo seguito alle misure già adottate da paesi come Germania, Gran Bretagna, Francia, che a loro volta hanno seguito le orme di grandi paesi sviluppati come Stati Uniti, Canada, Australia. Ma siamo ancora allo stadio di proposte: l’Unione europea è riuscita finora ad accordarsi più sul tema del controllo delle frontiere e della repressione degli ingressi indesiderati che sulle procedure per l’ingresso autorizzato. Le professioni scientifico-tecnologiche e quelle sanitarie sono le aree di maggior rilievo in questa ricerca dei talenti su scala globale.L’innalzamento delle barriere all’entrata non ferma del tutto gli ingressi, semmai provoca la ricerca di porte alternative. Nello sforzo di sigillare i confini, nel nostro paese è stato reso illegale nel corso del 2009 non solo l’ingresso non autorizzato (già punito dalle leggi), ma anche la permanenza di chi riesce in vario modo a superare la frontiera, spesso con documenti regolari (il visto turistico), e prolunga la sua permanenza sul territorio. Gli immigrati si trasformano così negli ancora più temuti irregolari, o peggio, clandestini, condannati a vivere per anni nella penombra dell’incertezza e della precarietà, malgrado si accollino, nella maggioranza dei casi, mansioni che contribuiscono al benessere delle società riceventi, come la cura di anziani e bambini. Poi, giacché è impossibile espellere centinaia di migliaia di persone, è controproducente privare del loro lavoro le società riceventi e i sistemi economici, è politicamente dannoso criminalizzare le famiglie che ne accolgono molti, si impone la necessità delle sanatorie. Così in ogni caso è avvenuto in Italia: dopo mesi di campagna politica contro i cosiddetti clandestini, la politica ha preso atto che molti essi sono in realtà lavoratori dei servizi di assistenza e accudimento in ambito familiare. Detto in altri termini: i clandestini che gran parte dell’opinione pubblica vorrebbe scacciare, sono per la maggior parte lavoratori e lavoratrici che gli stessi italiani hanno accolto, assunto, protetto e a volte sfruttato.
Ad un certo momento, si afferma l’esigenza di sanarne la situazione. In Italia nel 2009, malgrado le retoriche di ogni tipo, per ogni immigrato irregolare espulso quasi 20 hanno potuto sanare la propria posizione. Si è trattato della sesta sanatoria in 22 anni (le ultime due promosse da governi di centro-destra), oltre alle sanatorie mascherate da decreti flussi. I lavoratori immigrati sono passati quasi sempre attraverso una fase di soggiorno irregolare, e si sono ormai abituati a metterla in conto.
Negli ultimi decenni gli spostamenti attraverso le frontiere si sono accentuati e diversificati. Nuovi paesi sono entrati nella geografia dei luoghi di partenza e di arrivo, altri si sono contraddistinti piuttosto come spazi di transito. Diversi paesi di confine con le aree più sviluppate, come il Messico, la Russia, il Nord Africa, sono diventati ormai, nello stesso tempo, luoghi di partenza, di arrivo e di passaggio (magari dopo anni di attesa) di flussi migratori. Altri, come l’Italia e più in generale l’Europa meridionale, hanno cambiato status nella geografia mondiale della mobilità umana, passando dal rango di luoghi di origine dei flussi a quello di contesti di destinazione. Presi alla sprovvista, avendo cercato per un certo periodo di non vedere quanto stava avvenendo, hanno faticato e ancora stentano ad assumere una consapevolezza adeguata del fenomeno. Nel caso italiano, più che in Spagna, Grecia o Portogallo, si è assistito alla formazione di un circuito di mutuo rafforzamento tra inquietudini popolari diffuse nei confronti dell’immigrazione e politicizzazione della questione, assurta al rango di tema primario nelle campagne elettorali. Soltanto nel nostro paese, di fatto, forze politiche che inalberano l’ostilità verso gli immigrati come un vessillo hanno un peso elettorale decisivo e occupano posizioni di rilievo nella compagine governativa.
- Chi sono gli immigrati?
Cominciamo dal linguaggio. Noi definiamo come “immigrati” solo una parte degli stranieri che risiedono stabilmente e lavorano nel nostro paese. Ne sono esentati non solo i cittadini francesi o tedeschi, ma anche giapponesi e coreani, anche allorquando ricadono nella definizione convenzionale di immigrato adottata dall’ONU: una persona che si è spostata in un paese diverso da quello di residenza abituale e che vive in quel paese da più di un anno.
Lo stesso vale per il termine extracomunitari, un concetto giuridico (non appartenenti all’Unione europea), diventato invece sinonimo di “immigrati”, con conseguenze paradossali: non si applica agli americani, ma molti continuano a usarlo per i rumeni. Immigrati (ed extracomunitari) sono dunque ai nostri occhi soltanto gli stranieri provenienti da paesi che classifichiamo come poveri, mai quelli originari di paesi sviluppati. E’ interessante notare che alcuni di essi hanno cambiato status nel volgere degli ultimi decenni (è appunto il caso di Giappone, Corea, Taiwan ), così come del resto sta avvenendo, per fortuna, per gli emigranti italiani all’estero.
Hanno perso l’ingombrante etichetta di immigrati, entrando in quella dei “nostri amici” sempre ben accetti. Di conseguenza, il confine mentale che separa immigrati e stranieri graditi è in realtà mobile ed entro certi limiti poroso. Si può prevedere che tra venti o trent’anni cinesi, indiani e brasiliani non saranno più considerati immigrati. Un potente fattore di ridefinizione dello status dei cittadini esterni è rappresentato dai progressivi allargamenti dell’Unione europea.
Non tanto perché ipso facto la nuova condizione giuridica cambi la percezione sociale dei cittadini dei paesi neo-comunitari (basti pensare ai rumeni), ma piuttosto perché lo sviluppo economico favorito dall’ingresso nell’Unione e dalle politiche comunitarie sta avvicinando progressivamente le condizioni di vita di questi paesi a quelle dei partner europei. Così è avvenuto del resto, in tempi abbastanza rapidi, per Spagna, Portogallo, Grecia, Irlanda.
Un altro aspetto su cui vale la pena di soffermare l’attenzione riguarda la condizione singolare dei cittadini di paesi di per sé classificabili come luoghi di emigrazione, ma individualmente riscattati dall’eccellenza nello sport, nella musica, nell’arte, o quanto meno negli affari. Neanche ad essi si applica l’etichetta di “immigrati”. Come ha detto qualcuno, “la ricchezza sbianca”.
A queste percezioni sociali diffuse si può collegare la differente accettabilità degli stranieri residenti, anche da diversi anni, sotto il profilo della con-cittadinanza. Ci trasferiamo così sul piano delle norme giuridiche, che riflettono molto chiaramente le preferenze sociali. La legge italiana del ’92 che regola la materia, votata dal parlamento in modo quasi unanime, prevede che per poter chiedere di diventare italiani sia sufficienti quattro anni di residenza per gli stranieri provenienti da alcuni paesi, mentre ne occorrano dieci per gli altri, contro i cinque della normativa precedente.
La stessa legge, prevedendo una corsia molto facilitata di recupero della cittadinanza per i discendenti degli emigranti italiani all’estero, definisce i confini della nostra “nazione” in termini sostanzialmente etnici. Giovanna Zincone (2006) ha parlato al riguardo di “familismo legale”: l’italianità sembra essere prima di tutto una questione di sangue, tramandato per discendenza, o una qualità che tutt’al più può essere acquisita per matrimonio, grazie al legame con un partner appartenente alla stirpe (si sarebbe tentati di dire: alla tribù) degli italiani: soltanto nel 2009 le naturalizzazioni per residenza hanno superato quelle per matrimonio (23.000 contro 17.000). Fino ad allora era sempre accaduto il contrario.
Nello stesso tempo, tra il 1998 e il 2004 l’opportunità di recupero della cittadinanza da parte di discendenti di antichi emigrati ha prodotto silenziosamente oltre mezzo milione di nuovi cittadini, tra cui spiccano gli italiani di ritorno provenienti dall’Argentina con circa 236.000 acquisizioni e dal Brasile con 119.142. Va notato che neppure questi, qualora scelgano di venire effettivamente a vivere in Italia, anziché utilizzare il passaporto italiano per cercare fortuna in Spagna, Gran Bretagna o Stati Uniti, vengono definiti come “immigrati”, benché possano incontrare sul piano sociale difficoltà non molto diverse dagli stranieri classificati come tali.
Per esempio, il mancato riconoscimento dei titoli di studio (a differenza di quanto avviene in Spagna), li sospinge verso le posizioni inferiori nel mercato del lavoro.
- Lo Stato-nazione e i suoi confini
Questa solidarietà “nazionale” affonda le sue radici nell’età romantica, quando è nato il concetto stesso di “nazione”, vista come unità di sangue (gli antenati comuni), di territorio (definito da confini supposti come “naturali”), di lingua (nazionale, contrapposta ai “dialetti” regionali e locali) e (per molti) di religione. Ma più che un dato spontaneo, come i vari nazionalismi hanno sempre cercato di sostenere, si tratta di una costruzione socio-politica, attivamente perseguita dagli Stati-nazione moderni, che non hanno lesinato gli sforzi per realizzare una coincidenza tra popolazione residente, territorio compreso entro i confini e comunità nazionale , o più semplicemente per far coincidere le frontiere politiche con quelle culturali.
Vari mezzi sono stati nel tempo dispiegati a questo scopo: l’educazione pubblica, la coscrizione obbligatoria, i rituali civili (bandiera, inno nazionale, altare della patria….), il culto degli eroi e delle ricorrenze solenni della storia nazionale, le squadre nazionali nelle competizioni sportive, senza dimenticare il ruolo dei mezzi di comunicazione di massa e le istituzioni del welfare, che dispensano provvidenze sociali sulla base appunto dell’appartenenza alla comunità nazionale. Come ha scritto Castles, “ ogni cittadino è considerato appartenente ad un solo Stato-nazione, e quello Stato-nazione è considerato capace di includere come cittadini tutti gli individui che risiedono in maniera permanente sul suo territorio.
Ogni residente nel paese è inteso come appartenente, mentre il resto del mondo è escluso: gli stranieri non possono appartenere” (2005: 204).
L’adozione, eventualmente l’invenzione, e la standardizzazione di una lingua nazionale, possibilmente diversa da quella delle altre nazioni, insegnata nelle scuole pubbliche controllate dallo Stato, è stata uno degli strumenti più influenti per la costruzione di comunità nazionali dotate di un certo grado di omogeneità interna e separate dalle altre. Una vecchia battuta che circola tra i linguisti, quando si vuole spiegare la differenza tra lingue e dialetti, afferma che una lingua è “un dialetto con un esercito”, ossia una costruzione politica, attuata dagli Stati grazie al potere coercitivo di cui dispongono, rispetto alla fluidità delle parlate dialettali.
In epoca recente, radio e televisione hanno fornito un contributo decisivo all’unificazione linguistica di nazioni come la nostra, in cui i dialetti (o lingue regionali?) hanno conservato a lungo, e talora conservano, una grande vitalità. Si può aggiungere che fino alla fine del XIX secolo, era più facile entrare in un altro paese che uscire dal proprio, e concetti come quelli di passaporto, visto d’ingresso, polizia di frontiera, sono tipici prodotti della modernità. Si sono imposti di fatto soltanto dopo la prima guerra mondiale.
Lo stesso concetto di Stato-nazione combina la concezione razionale e fredda dello Stato moderno con l’idea romantica di nazione, calda, suggestiva, carica di componenti emotive. A loro volta le nazioni si sono formate trascendendo i confini di unità sociali più ristrette, locali, regionali, linguistiche: “La nazione è quindi sia postetnica, in quanto nega la salienza delle vecchie distinzioni etniche e le considera come appartenenti ad un oscuro e remoto passato prestatuale, sia superetnica, in quanto delinea la nazione come una specie di etnia nuova e più grande” (Baumann, 2003: 39).
Per questa ragione, gli Stati-nazione moderni non sono affatto religiosamente neutrali come pretendono di essere, ma cercano di suscitare sentimenti comunitari di tipo para-religioso, forgiando una sorta di mistica patriottica, attraverso i rituali e le celebrazioni che abbiamo ricordato. L’idea ottocentesca di “religione civile”, tornata in auge negli ultimi anni, allude a questa pretesa delle ideologie nazionali, di spingere i cittadini al culto di un complesso di valori che hanno al centro il destino della patria.
L’invenzione della nazione, con i suoi corollari di eguaglianza e fratellanza fra i membri (notiamo di nuovo l’impiego di termini tipici delle comunità religiose), riporta ad un livello più ampio l’idea di una demarcazione tra “noi”, internamente omogenei perché unificati dal sentimento nazionale e dalle istituzioni statuali, e gli “altri”, i diversi, perché non membri della nostra compagine nazionale. In questo senso, le nazioni possono beneficiare del senso ancestrale, profondo quanto irriflesso, di solidarietà tra i membri del gruppo, che ha come contrappeso la diffidenza verso gli estranei. Non si comprenderebbe la fortuna dell’idea di nazione, giunta ad essere considerata un dato naturale e indiscusso, senza questo retroterra antropologico, rielaborato, ampliato e codificato nella forma dei confini nazionali. La modernità, attraverso l’istituzione di frontiere, cittadinanze e complessi apparati statali, è intimamente legata a questi processi: è stata costruita sull’espulsione o sull’assimilazione, sia fisica sia simbolica, dell’altro, nel nome della purezza religiosa, etnica, culturale e scientifica.
Un recente numero della rivista “Mondi migranti” su “le migrazioni nel Mediterraneo” restituisce il senso di uno spazio marittimo che nel passato ha unito popoli diversi e prodotto processi di scambio e sincretismo tra mondi culturali ricchi di peculiarità, e anche oggi, malgrado la modernizzazione, contribuisce a generare e rivitalizzare le dinamiche socio-culturali legate alle migrazioni. Nello stesso tempo però l’irrigidimento delle frontiere e dei controlli tende a separare e contrapporre territori che un tempo, tra conflitti e commerci, trovavano motivi per percepirsi come facenti parte di uno spazio condiviso. Da tutto ciò discende la conseguenza che più ci interessa: se gli estranei che attraversano i confini sono percepiti come poveri che pretendono di stabilirsi sul nostro territorio, sulla terra di quella grande tribù che è la nazione, scatta la paura antica dell’invasione e del saccheggio2.
Questa paura trova un’espressione paradigmatica nella diffidenza, peraltro reciproca, tra popolazioni sedentarie e popolazioni nomadi o presunte tali, con il suo contorno di radicati pregiudizi, leggende nere ed espulsioni violente. Si può dunque intuire perché il presidio delle frontiere e dell’accesso al territorio è investito di tanta risonanza, al punto da essere spesso considerato un banco di prova dell’efficienza e della serietà delle istituzioni dello Stato: uno dei principali simboli della sovranità degli Stati nazionali è il controllo dei confini, ben delimitati dai trattati internazionali e sorvegliati dalle forze preposte alla salvaguardia della sicurezza nazionale. La regolazione dell’ammissione sul territorio degli stranieri è pertanto uno dei compiti che gli Stati perseguono con maggiore impegno e con l’ausilio di tecniche sempre più sofisticate. La stessa perdita di capacità di governare processi economici e produttivi che trascendono le frontiere, conduce a investire risorse simboliche e materiali sul controllo della mobilità umana (dai paesi classificati come poveri), al fine di recuperare legittimità agli occhi dei cittadini-elettori.
L’immigrazione, dunque, non è solo una questione di movimenti di popolazione. E’ una vicenda ben più complessa, in cui intervengono gli Stati riceventi, con le loro politiche di categorizzazione degli stranieri più o meno graditi e di controllo dei confini, le reazioni delle società nei confronti dei nuovi arrivati, i paesi d’origine con la loro reputazione più o meno positiva, e naturalmente i migranti stessi, impegnati nella ricerca di smagliature e interstizi che consentano l’accesso ai territori in cui sperano di trovare miglior fortuna che in patria. Va ribadito che non esistono Stati nazionali, per quanto democratici, che non presidino le frontiere e non controllino gli ingressi sul territorio nazionale, con le conseguenze relative: richiesta di passaporti e permessi di soggiorno, complessi regimi di regolamentazione dell’immigrazione, procedure di trattenimento ed espulsione degli stranieri indesiderati, anche se di fatto applicate solo ad una parte dei casi potenzialmente pertinenti. Il problema consiste nel trovare un equilibrio tra la sorveglianza dell’accesso al territorio nazionale, gli interessi che dall’interno dei confini premono per l’apertura, il pacchetto di diritti umani che dei paesi democratici, firmatari di solenni convenzioni internazionali, devono comunque garantire a richiedenti asilo, rifugiati, stranieri residenti anche temporaneamente, compresi coloro che si trovano sprovvisti di regolari autorizzazioni al soggiorno.
Proprio in funzione del contrasto tra crescente domanda di mobilità e crescente restrizione degli ingressi, si è formata un’economia della frontiera e degli attraversamenti non autorizzati, che offre vari tipi di servizi a quanti desiderano passare dalla sponda “povera” alla sponda “ricca” della geografia di un mondo drammaticamente sperequato. Fabbricazione di documenti falsi, rischiosi passaggi marittimi e terrestri, matrimoni combinati, ma anche consulenza giuridica per il recupero della cittadinanza, per l’ottenimento di un qualche tipo di visto (in primo luogo, turistico), o per l’individuazione di qualche spiraglio semi-legale per l’ingresso, sono alcune delle attività offerte ai richiedenti.
La frontiera per alcuni è diventata una risorsa, non più per il vecchio contrabbando di merci ma per il più moderno transito di esseri umani. Il viaggio, a sua volta, sta ridiventando per un numero crescente di migranti un’esperienza rischiosa, travagliata, che può durare mesi o addirittura anni, ricorrendo a mezzi di fortuna3, ad espedienti di ogni sorta, ai servizi di passatori più o meno professionali, a soste prolungate in zone di transito per procurarsi le risorse necessarie per la tappa successiva. L’innalzamento della rigidità dei controlli ha poi un effetto facilmente prevedibile: provoca un accrescimento della sofisticazione e del livello di organizzazione criminale dell’industria dell’attraversamento delle frontiere. Il fatto più grave, in questa spirale, è l’asservimento in varie forme di prestazioni forzate di coloro che non possono pagare il servizio. Favoreggiamento dell’immigrazione non autorizzata e traffico di esseri umani sono fenomeni diversi, ma di fatto risultano spesso intrecciati, tanto da poter essere inquadrati come i due estremi di un’unica attività.
La costruzione sociale e politica della figura dell’immigrato ha poi conseguenze importanti sotto il profilo delle rilevazioni statistiche, che sono tutt’altro che operazioni obiettive e neutrali. Abbiamo già ricordato il caso dei discendenti di antichi emigranti, che in Italia come in Germania e in vari altri paesi non sono annoverati tra gli immigrati; oppure quello dei coniugi che acquistano la cittadinanza per matrimonio. Un altro caso che influisce molto sulla raccolta dei dati è quello delle seconde generazioni, compresi i nati sul territorio nazionale da genitori immigrati (le seconde generazioni in senso stretto): stranieri in Italia, cittadini per diritto di suolo negli Stati Uniti o in Canada, quasi altrettanto automaticamente in Francia, in una situazione intermedia in Germania, e si potrebbe continuare.
Un luogo comune molto popolare, e sovente ripreso nel discorso politico, tende a individuare delle soglie quantitative, oltre le quali l’immigrazione diventerebbe, come si dice, “ingestibile”.
Sarebbe quindi “ragionevole” porre dei limiti all’accoglienza, per il bene degli immigrati stessi. Le evidenze statistiche, pur con i limiti già rilevati, non confermano questi assunti: stando ai dati OCSE (basati sul luogo di nascita) gli immigrati rappresentano nel 2006 in media il 12% della popolazione totale (+18% rispetto al 2000), ma raggiungono il 34,8% in Lussemburgo, il 24,1% in Australia e in Svizzera, il 21,2% in Nuova Zelanda, il 19,8% in Canada (OECD, 2008). Come si vede, ai primi posti in classifica compaiono paesi vasti, ma anche paesi piccoli, paesi con bassa densità di popolazione, ma anche paesi con densità elevata. I limiti all’accoglienza non sono mai meramente demografici, ma vanno ricercati nelle visioni, nei fabbisogni, nelle politiche adottate dagli Stati riceventi.
Vanno poi ricordati i processi di naturalizzazione4, che trasformano gli stranieri lungoresidenti in cittadini. In questo caso, gli Stati nazionali, prendendo atto dell’irreversibilità dell’insediamento di un certo numero di stranieri, preferiscono includerli a pieno titolo nella comunità dei cittadini, anziché lasciarli indefinitamente ai margini del corpo sociale. Si rischia altrimenti di cristallizzare uno squilibrio che ricorda quello dell’antica Atene: una democrazia in cui solo gli autoctoni godono della piena cittadinanza e dei diritti politici, mentre i meteci, ossia i lavoratori stranieri residenti, non possono partecipare alle decisioni, che pure li riguardano (Walzer, 1987).
In Italia ho già ricordato le rigidità normative, che fanno del nostro paese uno dei più chiusi del mondo occidentale all’acquisto della cittadinanza per scelta (e non per discendenza o per matrimonio). Altrove invece le cose vanno diversamente: in Australia possono bastare due anni, in Canada tre, negli Stati Uniti, in Francia, in Gran Bretagna cinque. Di fatto ogni anno nel mondo centinaia di migliaia di immigrati scompaiono dalle statistiche perché sono riusciti a trasferirsi nella più confortevole categoria dei cittadini: 700.000 l’anno scorso negli Stati Uniti. Se per esempio la Francia o la Gran Bretagna ufficialmente ospitano meno immigrati della Germania, questo dipende in realtà dalle maggiori opportunità di naturalizzazione.
Sarebbe quindi “ragionevole” porre dei limiti all’accoglienza, per il bene degli immigrati stessi. Le evidenze statistiche, pur con i limiti già rilevati, non confermano questi assunti: stando ai dati OCSE (basati sul luogo di nascita) gli immigrati rappresentano nel 2006 in media il 12% della popolazione totale (+18% rispetto al 2000), ma raggiungono il 34,8% in Lussemburgo, il 24,1% in Australia e in Svizzera, il 21,2% in Nuova Zelanda, il 19,8% in Canada (OECD, 2008). Come si vede, ai primi posti in classifica compaiono paesi vasti, ma anche paesi piccoli, paesi con bassa densità di popolazione, ma anche paesi con densità elevata. I limiti all’accoglienza non sono mai meramente demografici, ma vanno ricercati nelle visioni, nei fabbisogni, nelle politiche adottate dagli Stati riceventi.
Vanno poi ricordati i processi di naturalizzazione4, che trasformano gli stranieri lungoresidenti in cittadini. In questo caso, gli Stati nazionali, prendendo atto dell’irreversibilità dell’insediamento di un certo numero di stranieri, preferiscono includerli a pieno titolo nella comunità dei cittadini, anziché lasciarli indefinitamente ai margini del corpo sociale. Si rischia altrimenti di cristallizzare uno squilibrio che ricorda quello dell’antica Atene: una democrazia in cui solo gli autoctoni godono della piena cittadinanza e dei diritti politici, mentre i meteci, ossia i lavoratori stranieri residenti, non possono partecipare alle decisioni, che pure li riguardano (Walzer, 1987).
In Italia ho già ricordato le rigidità normative, che fanno del nostro paese uno dei più chiusi del mondo occidentale all’acquisto della cittadinanza per scelta (e non per discendenza o per matrimonio). Altrove invece le cose vanno diversamente: in Australia possono bastare due anni, in Canada tre, negli Stati Uniti, in Francia, in Gran Bretagna cinque. Di fatto ogni anno nel mondo centinaia di migliaia di immigrati scompaiono dalle statistiche perché sono riusciti a trasferirsi nella più confortevole categoria dei cittadini: 700.000 l’anno scorso negli Stati Uniti. Se per esempio la Francia o la Gran Bretagna ufficialmente ospitano meno immigrati della Germania, questo dipende in realtà dalle maggiori opportunità di naturalizzazione.
- Migranti diversi: una crescente eterogeneità
Non va dimenticato tuttavia che quelli che per i paesi riceventi sono una risorsa preziosa, per i paesi d’origine rappresentano un’emorragia di intelligenze, un “drenaggio di cervelli” (brain drain).
I sistemi sanitari di diverse aree geografiche, in Africa e nel Centro America, risentono dell’esodo di medici, infermieri e tecnici verso lidi più promettenti. In alcuni casi, come quello dell’India, si assiste invece in una certa misura ad un ritorno di cervelli che danno vita a nuove attività economiche (il caso tipico è quello dell’informatica), grazie ai contatti e alle reti fiduciarie costruite all’estero.
Ho già ricordato il caso delle seconde generazioni. Aggiungo soltanto che i ricongiungimenti familiari sono oggi nell’area OCSE la fonte principale dell’immigrazione regolare, con punte particolarmente elevate negli Stati Uniti (70% degli ingressi) e in Francia (60%) (OECD, 2008). I paesi che importano manodopera si trovano presto o tardi di fronte a un dilemma: o negano il diritto dei migranti a formare una famiglia, o a riunificarla e a vivere con i propri cari, oppure devono accettare che l’immigrazione per lavoro, di adulti soli, si trasformi in immigrazione familiare, sganciandosi da uno stretto legame con i fabbisogni del mercato. Sebbene non manchino casi che si attestano sul primo corno del dilemma (come i paesi del Golfo Persico), gli Stati occidentali a ordinamento liberale si collocano in varie posizioni intermedie tra i due estremi, riluttanti a una piena liberalizzazione ma vincolati al riconoscimento di diritti fondamentali, come quello alla coesione familiare, anche per effetto dell’azione delle Corti di giustizia e delle organizzazioni che difendono i diritti umani, Chiese comprese.
Un altro elemento di differenziazione si riferisce al genere. Vari studi hanno colto nella femminilizzazione dei flussi migratori uno dei tratti innovativi delle migrazioni contemporanee, ma questa posizione è stata vivacemente contestata da varie studiose di orientamento femminista, che hanno ricordato come anche nel passato le donne emigrassero, spesso da sole e per ragioni di lavoro. La grande migrazione irlandese verso l’America è stata nelle prime fasi soprattutto femminile, e le donne hanno aperto la strada ai parenti giunti al loro seguito.
Si può forse osservare che l’idea di processi migratori a guida maschile, in cui le donne arrivano in un secondo momento, come mogli al seguito, è stata tipica soprattutto di una fase della storia delle migrazioni: quella delle migrazioni intraeuropee del dopoguerra. Oggi, in ogni caso, all’incirca la metà dei migranti sono donne (nell’area OCSE, il 51,1%), spesso primomigranti e lavoratrici. In parecchi paesi d’origine le donne rappresentano la maggioranza dei partenti, a volte una maggioranza molto netta. La femminilizzazione delle migrazioni ha a che fare con la domanda di lavoro di cura da parte delle società più sviluppate, e in primo luogo delle famiglie. Giacché molte donne migranti sono a loro volta madri, si assiste allo sviluppo di un altro fenomeno: quello delle “famiglie transnazionali”, separate da confini e distanze, ma tenacemente impegnate nel mantenere vivi vincoli affettivi e responsabilità genitoriali. Telefonate, rimesse e doni sono i principali mezzi per esprimere sollecitudine e affetto nei confronti dei figli rimasti in patria, ma talvolta anche le nuove tecnologie della comunicazione si stanno affacciando nel mondo delle famiglie migranti. Nascono persino attività economiche dedicate, dai phone centers, ai servizi di money transfer, ai corrieri che collegano ormai regolarmente le nostre città con remote destinazioni nei territori dell’Europa Orientale. Le migrazioni femminili sono per molte protagoniste un veicolo di emancipazione, ma al tempo stesso una fonte di sofferenza emotiva, derivante dall’impossibilità di prendersi cura direttamente dei propri figli: il “dolore della genitorialità transnazionale”.
Così, accanto al fenomeno del brain drain, va annoverato anche quello del care drain, ossia il drenaggio di risorse di accudimento, che priva le famiglie di queste donne del perno dell’organizzazione delle cure domestiche. Neppure le famiglie transnazionali sono però tutte uguali, per situazioni di partenza (molte donne devono farsi carico da sole del sostentamento dei figli), frequenza delle visite, età dei figli; così come la maternità a distanza non è un destino irrevocabile, giacché può essere seguita, sia pure con fatica e complessi problemi di riaggiustamento, dai ricongiungimenti familiari di cui abbiamo parlato in precedenza.
Non vanno trascurati, per contro, i fenomeni del traffico di donne per il grande mercato della prostituzione, che hanno registrato una netta crescita nell’ultimo decennio, con lo sviluppo di reti transnazionali gestite dal crimine organizzato. All’emancipazione quotidiana di molte donne migranti si contrappone dunque la costrizione di altre, imposta con vari mezzi coercitivi, che possono spaziare dal debito loro attribuito per l’ingresso nel mondo ricco, alle minacce nei confronti dei familiari, alla manipolazione affettiva, all’uso della violenza fisica.
C’è poi un altro fattore, che differenzia le condizioni delle madri a distanza, così come degli altri migranti: lo status giuridico. Si può individuare infatti una “stratificazione civica”, con la formazione di una gerarchia che vede al livello più basso gli immigrati irregolari, impossibilitati fra l’altro a uscire dall’Italia, talvolta per anni, per rivedere i familiari; poi quanti dispongono di un permesso di soggiorno limitato nel tempo e strettamente legato al lavoro, di solito in seguito a una sanatoria esplicita o mascherata; quindi i lungoresidenti con uno statuto stabile, che hanno maggiori possibilità di realizzare il ricongiungimento familiare. Decisamente più avvantaggiati risultano i migranti interni all’Unione europea, che possono circolare liberamente e far entrare i familiari anche per brevi periodi di vacanza, oltre a poter votare a livello locale ed essere protetti dalle minacce di espulsione (applicabili soltanto in casi eccezionali). Infine, sul gradino più alto, si trovano ovviamente i cittadini a pieno titolo e quanti ottengono la naturalizzazione.
Una stratificazione parallela riguarda i richiedenti asilo, a seguito dell’accresciuta articolazione (e selettività) dei dispositivi di protezione, dai rifugiati pleno iure ai sensi della convenzione di Ginevra, a quanti godono di una semplice protezione temporanea, revocabile in ogni momento.
- Legami durevoli, appartenenze multiple
Da alcuni anni poi gli investimenti dei migranti nei luoghi d’origine vengono visti come un risorsa per lo sviluppo, anche da parte delle grandi istituzioni che finanziano la cooperazione internazionale, come la Banca Mondiale e l’Unione europea, saldandosi con la prospettiva da tempo emergente di interventi decentrati, partecipati e capaci di coinvolgere le comunità locali. Associazioni e iniziative economiche degli emigrati, attivazione della società civile locale, risorse tecniche e finanziarie internazionali, sono i capisaldi dell’approccio del co-sviluppo5.
Sul piano politico, il fenomeno di maggior rilievo consiste nelle accresciute possibilità di partecipazione politica riconosciute ai migranti da parte degli Stati di provenienza. In molti casi questi possono oggi votare dall’estero per le elezioni della madrepatria, anche se molto più raramente eleggono propri rappresentanti in appositi collegi, come avviene nel caso italiano. La volontà di mantenere i legami con i connazionali espatriati spinge i governi a queste aperture, a cui non è certo estranea l’aspettativa di continuare a beneficiare dei flussi di rimesse e dei proventi fiscali che ne discendono.
Più contrastato, specialmente nello scenario europeo, appare un altro sviluppo che sembrava destinato a imporsi a livello internazionale, quello della diffusione di cittadinanze multiple e di diritti individuali svincolati dall’appartenenza nazionale. Siamo qui nuovamente di fronte ad un contrasto fra i tradizionali istituti degli Stati-nazione, di cui la cittadinanza appunto nazionale è un emblema, e la pietra d’inciampo rappresentata dalle migrazioni internazionali, fatte di insediamenti stabili sul territorio di uno Stato ma anche di legami duraturi con luoghi situati oltre i confini.
Se un numero crescente di paesi, incluso il nostro, oggi tollera la doppia cittadinanza, non mancano i casi di ripensamento: un paese tradizionalmente liberale come l’Olanda già nel 1997 ha abolito questa possibilità. La possibilità di mantenere la cittadinanza del paese di provenienza accanto a quella del nuovo paese, oltre a corrispondere ai sentimenti di molti migranti, consente ad essi di poter rientrare agevolmente nei luoghi di origine, di effettuare degli investimenti e magari di tornare definitivamente. E’ un tipico caso in cui il mondo diviso in Stati delimitati da confini precisi e da appartenenze univoche fatica ad adattarsi alla nuova realtà della mobilità umana.
Un altro complesso capitolo dei legami e delle identificazioni dei migranti concerne la sfera culturale e in special modo religiosa. Una dimensione della globalizzazione culturale, a cui le migrazioni contribuiscono, consiste nella formazione di comunità religiose che oltrepassano le frontiere, mantengono vivo il legame con i luoghi ancestrali, rielaborano pratiche organizzative e cultuali, e per certi aspetti anche assunti dottrinali, per adattarli al nuovo contesto. Le appartenenze religiose non solo collegano i correligionari nei paesi di origine e di insediamento, ma uniscono gli aderenti a movimenti religiosi globali in tutto il mondo, indipendentemente dai luoghi in cui risiedono. I leader spirituali operano attivamente in questi processi, sia viaggiando per incontrare direttamente con i fedeli, sia in forme virtuali, per incitare a trasferire dottrine e valori universali nei contesti locali. Così, nuove architetture religiose creano e sono create da queste comunità spirituali transnazionali.
Pellegrinaggi, visite di leader, scambi di incontri e di aiuti fra congregazioni locali, contribuiscono ad alimentare i legami transnazionali, e nello stesso tempo favoriscono processi di integrazione diversi da quelli auspicati dalle classiche visioni dell’assimilazione degli immigrati, intesa come abbandono dei vecchi riferimenti culturali per abbracciare incondizionatamente quelli del paese ricevente: pur auspicando l’inserimento nel nuovo contesto di vita, sollecitano il mantenimento di riferimenti identitari e rinsaldano i legami sociali con i connazionali e correligionari.
Le funzioni della religione nell’accompagnare i percorsi dei migranti possono essere espresse con la formula delle tre R: rifugio, rispetto, risorse. Anzitutto, la dimensione del rifugio: le chiese e altre organizzazioni religiose svolgono un importante ruolo nella creazione di comunità e come fonti di assistenza sociale ed economica per chi si trova nella necessità. L’idea di comunità –di valori condivisi e di un legame durevole- è spesso sufficiente a motivare le persone a fidarsi e ad aiutarsi reciprocamente, anche in assenza di prolungate relazioni personali. In secondo luogo, il rispetto: la partecipazione religiosa ha a che fare con la ricerca di riconoscimento e di un’immagine sociale positiva. Le organizzazioni comunitarie collegate alle chiese offrono la possibilità di assumere ruoli di responsabilità e forme di riconoscimento sociale, difficilmente accessibili nella società esterna. Certamente nel caso americano, ma probabilmente anche in Europa, la partecipazione religiosa ha poi una relazione positiva con la mobilità sociale. Una volta che i migranti si sono insediati, hanno ricongiunto o formato una famiglia, hanno cominciato a consolidare le loro condizioni economiche e sociali, la frequentazione di un’istituzione religiosa diventa un simbolo di rispettabilità e un’opportunità per allacciare contatti utili ai fini di nuovi avanzamenti nella scala sociale. La partecipazione religiosa rafforza la coesione familiare, i legami intergenerazionali, la conformità alle norme sociali: si collega, esplicitamente o implicitamente, ai tradizionali stili di vita della classe media. Al di là dei comportamenti effettivi che vedono le religioni come veicoli di legami transnazionali (pellegrinaggi, incontri con leader spirituali, invio di contributi in denaro, ecc.), l’aspetto problematico, agli occhi di molti osservatori, consiste nell’identificazione soggettiva con una comunità di fedeli che deborda dai confini e si sente legata con altri credenti dispersi nel mondo, ma soprattutto, di solito, con le istituzioni religiose dei paesi d’origine. Molti pensano che tali processi siano di ostacolo alla piena assimilazione nelle società di accoglienza: in Europa, è questa la chiave di lettura con cui viene prevalentemente affrontato il fenomeno islamico. Anche da questo punto di vista, le migrazioni entrano in conflitto con le concezioni “nazionali” a cui siamo abituati, sia perché contraddicono l’impostazione secolarizzata (ma para-religiosa, come abbiamo visto) degli Stati moderni, sia perché introducono religioni diverse da quella incorporata come dato storico nella coscienza nazionale. Gli attacchi terroristici hanno senza dubbio alimentato queste diffidenze. Ma i sentimenti anti islamici non sono nati dopo il 2001.
L’omogeneità religiosa, insieme all’unità linguistica e alla comune discendenza, fa parte del retaggio di quasi tutte le nazioni europee, codificata da chiese di Stato e regimi concordatari. Anche in tempi di secolarizzazione, e forse proprio perché i tradizionali punti di riferimento normativi si indeboliscono, in buona parte dell’opinione pubblica l’insediamento di religioni “straniere” viene percepito come una minaccia per l’identità culturale nazionale. Come mostra invece l’esperienza americana, l’adesione religiosa può dar luogo a forme di integrazione selettiva, che puntano a salvare alcuni aspetti dei riferimenti cognitivi e morali tradizionali, pur favorendo l’inserimento nel nuovo contesto e la conformità alle leggi: come una lunga tradizione di ricerche conferma, la devianza è negativamente correlata con la pratica religiosa, mentre la conformità alle leggi ha un rapporto positivo con la partecipazione a comunità reliogiose.
- Oltre le apparenze: le ragioni delle migrazioni
Inoltre, quando un paese perviene ad un livello dignitoso di benessere, smette abbastanza rapidamente di alimentare i circuiti delle migrazioni internazionali, e comincia semmai a diventare a sua volta una meta per nuove migrazioni.
Abbiamo visto però che le migrazioni interessano all’incirca il 3% della popolazione mondiale, mentre povertà e sottosviluppo, purtroppo, colpiscono una porzione ben più ampia dell’umanità. Tra coloro che versano nelle medesime condizioni di deprivazione, soltanto una minoranza si avventura nell’arduo cammino dell’emigrante. Non solo: se confrontiamo l’elenco dei paesi che forniscono il maggior numero di immigrati, verso l’Italia ma anche su scala più ampia, con le graduatorie mondiali basate sull’indice dello sviluppo umano, scopriamo che i paesi più sfortunati, come quelli dell’Africa sub-sahariana, partecipano ben poco alle migrazioni internazionali, e soprattutto inviano pochi emigranti verso l’Occidente sviluppato.
Nell’area OCSE, su 75 milioni di immigrati, il 40% provengono dall’America latina, il 28% dall’Asia, il 16% dall’Europa a 15.
I maggiori fornitori di migranti, per così dire, sono paesi in posizione intermedia nelle graduatorie dello sviluppo: non abbastanza sviluppati da consentire a tutti di coltivare aspettative di una vita migliore in patria, non troppo poveri da rendere inaccessibili o disumani i viaggi della speranza. Per l’Italia la graduatoria vede nell’ordine Romania, Albania, Marocco, Cina, Ucraina, Filippine.
Non sono paesi ricchi, ma neppure poverissimi. Gli squilibri economici e sociali del mondo hanno quindi dei nessi con le migrazioni internazionali, ma meno diretti di quanto si creda.
Un secondo aspetto non trascurabile consiste nella domanda di manodopera delle economie più sviluppate. Benché oggi generalmente più opaca e meno esplicita che nel passato, spesso riferita a posizioni svantaggiate e magari irregolari (a meno che non si tratti dell’immigrazione altamente qualificata prima ricordata) questa domanda, trasmessa in molti modi fino ai luoghi di origine dei migranti, suscita aspettative e sollecita partenze. Se anche i paesi che attualmente forniscono braccia per la nostra economia e le nostre famiglie dovessero conoscere un rapido sviluppo, tanto da uscire dal novero degli esportatori di manodopera, le migrazioni non si fermerebbero, come alcuni ingenuamente fanno mostra di credere: andremmo a cercare muratori, lavapiatti, operai, colf e assistenti domiciliari in altri territori, non ancora inseriti nelle rotte migratorie. Il punto debole delle spiegazioni basate sulla domanda è un altro: presuppone che i migranti siano docili pedine, mobilitabili in funzione degli interessi delle economie dominanti. I migranti non si spostano semplicemente verso i territori in cui si percepisce una domanda di lavoro, peraltro difficilmente evidente, ma seguendo logiche sociali. Anche qui, in base al solo dato della domanda non si riesce a comprendere perché alcuni partano, ma molti altri rimangano. Dobbiamo ora accennare ad un altro fattore, spesso evocato nel discorso corrente: l’influenza della televisione e più in generale dei modelli di consumo diffusi dalla comunicazione mediatica su scala globale. E’ vero che i media propagano anche in luoghi remoti una serie di stimoli un tempo sconosciuti, che suscitano aspettative di benessere, contribuendo a preparare il terreno alla scelta di emigrare. Di fatto però, di nuovo, tra quanti sono esposti ai medesimi stimoli mediatici, soltanto una minoranza si pone effettivamente in movimento6.
Devono evidentemente intervenire altri fattori per tradurre il fascino del mondo sviluppato nella decisione di partire.
Un altro elemento spesso chiamato in causa rimanda alla regolazione politica delle migrazioni, e quindi alla maggiore facilità di ingresso e di permanenza da alcuni paesi verso altri, per via di legami storici, interessi strategici, politiche di reclutamento di manodopera, azioni di lobby e così via. Anche questa spiegazione, vagliata con attenzione, si rivela però inadeguata o almeno insufficiente: basti pensare all’ingente fenomeno dell’immigrazione irregolare. Le persone partono, cercano un varco e si insediano anche se non potrebbero, sotto il profilo normativo. A quanto sembra, la regolazione non è una causa esplicativa delle migrazioni. Attraverso le ripetute sanatorie, specialmente (ma non solo) nell’Europa meridionale, avvengono processi di segno opposto: sono i flussi migratori a piegare i dispositivi regolativi, obbligandoli a riconoscere i processi ormai avvenuti. La regolazione spiega semmai, in parte, le modalità con cui avvengono le migrazioni, l’orientamento verso destinazioni apparentemente più accessibili, la ricerca di nuovi canali (come il ricongiungimento o l’asilo) quando le migrazioni per lavoro sono bloccate. Non la scelta di partire.
Se ci spostiamo dalla regolazione normativa al piano più ampio delle relazioni storiche, linguistiche e politiche tra paesi diversi, possiamo indubbiamente scoprire delle relazioni significative: in Francia, Gran Bretagna, Olanda, Spagna, Portogallo, percentuali elevate di immigrati provengono dalle ex colonie d’oltremare. In parte arrivati nel passato per esplicite politiche di reclutamento, in parte per conseguenza della dismissione degli imperi coloniali, in parte per scelte politiche che hanno inteso mantenere rapporti privilegiati con gli antichi possedimenti, gli arrivi dalle ex colonie oggi sono però generalmente scoraggiati e le norme applicate sono sempre più simili a quelle in vigore per gli altri paesi.
Restano aspetti come la comunanza linguistica, la somiglianza dei sistemi di istruzione, la presenza di imprese e istituzioni che favoriscono contatti e collaborazioni. Soprattutto, resta il portato storico delle comunità insediate a seguito delle migrazioni del passato.
Il fattore che esercita la maggiore influenza è rappresentato infatti dal precedente insediamento di parenti e compaesani. Le migrazioni attraversano i confini soprattutto grazie ai ponti sociali formati dalle reti di relazioni che legano gli immigrati già stabiliti in un determinato luogo con i non migranti e i candidati all’immigrazione che si trovano ancora in patria. Attraverso questi contatti arrivano nei luoghi d’origine anzitutto informazioni e stimoli imitativi, talvolta inviti e incoraggiamenti; poi l’aiuto per una prima sistemazione, a volte i soldi per il viaggio, quasi sempre un qualche orientamento e magari un convinto appoggio per la ricerca del primo lavoro; un riferimento per muoversi nella società ricevente ed eventualmente per regolarizzare la propria posizione. Poiché i migranti non sono angeli, va aggiunto che l’aiuto non è sempre gratuito e disinteressato, ma può prevedere delle contropartite, dall’affitto di posti letto a caro prezzo, alla corresponsione di tangenti per il reperimento del lavoro, allo sfruttamento nelle attività economiche dei connazionali; ancor peggio, può anche produrre un inserimento in circuiti devianti, seguendo percorsi abbastanza analoghi a quelli che conducono a lavori leciti. Le reti tuttavia spiegano bene la continuazione delle migrazioni, una volta innescate, non la loro origine. Anche per questa ragione, oltre che delle reti bisogna tenere conto di varie istituzioni, formali e informali, a volte illegali (come la fabbricazione di documenti falsi, o il favoreggiamento dei passaggi di frontiera), che nei luoghi di partenza, di transito e di destinazione, promuovono, accompagnano e agevolano i movimenti migratori. Non va infine trascurato il livello delle scelte individuali e familiari.
Chi parte confida di poter migliorare le proprie condizioni economiche, e forse ancor più quelle della propria famiglia. Di certo queste scelte non avvengono in contesti di completezza e trasparenza dell’informazione, che sarebbero necessarie per poter parlare di decisioni razionali. Raramente e magari solo per caso i migranti si dirigono verso i luoghi che offrono le condizioni teoricamente migliori. Conta di più poter contare su un parente affidabile in un certo paese che sapere di poter trovare un livello più elevato di salari e di protezione sociale in un altro: le reti sociali, come abbiamo osservato, contano molto. Le scelte sono poi mediate, in molti casi, dagli interessi e dalle strategie del gruppo familiare: i genitori aiutano a partire i figli, e soprattutto le figlie, per garantirsi un aiuto nella vecchiaia. Le donne dell’Est vengono a lavorare qui per aiutare i figli a mettere su casa o a studiare all’università. A volte devono farsi carico di 4 generazioni: genitori, coniuge (quando c’è), figli e nipoti. Va comunque riconosciuto che mettersi in marcia richiede coraggio, a fronte delle barriere alla mobilità, dei rischi di sfruttamento, dei lunghi e tortuosi percorsi per arrivare ad uno status regolare, talvolta dei pericoli per l’incolumità sulle rotte dell’ingresso non autorizzato. Nelle migrazioni, per dirla in una parola, incide più la speranza della disperazione.
Possiamo così concludere che la spiegazione delle migrazioni necessita di un approccio multicausale, con l’intreccio di una serie di fattori che possono assumere in vari periodi storici un peso diverso. Pesano gli squilibri economici, come pure la circolazione di informazioni che fanno intravedere la possibilità di una vita migliore all’estero. Incide senz’altro la domanda di manodopera delle economie più prospere. Influiscono i rapporti tra i paesi, l’eredità della storia passata, la comunanza linguistica. Svolgono un ruolo decisivo le reti e le altre istituzioni migratorie, mediando tra il generico interesse a partire e la possibilità di arrivare ad una determinata destinazione. I dispositivi normativi indicano i possibili sentieri per entrare o per regolarizzare la propria posizione. Alla fine, entrano in gioco le scelte delle persone e dei gruppi familiari, che non si esercitano in un vuoto sociale, ma nell’ambito di opportunità delineate dai fattori che abbiamo descritto. I migranti sono attori sociali, che pur tra serie difficoltà e molteplici condizionamenti, assumono decisioni ed elaborano progetti.
- Basti pensare ai titoli di giornali e telegiornali: quando accade una disgrazia in paesi lontani, subito ci informano se vi sono italiani coinvolti;
- Per questa ragione, a mio avviso, i reati degli stranieri hanno un’eco molto più ampia e suscitano reazioni più dure di quelli analoghi perpetrati da italiani. Attribuire la responsabilità di questa risonanza ai mass media mi pare semplicistico. In realtà, si mette in moto un circuito, per cui i produttori di informazione sanno in anticipo che il delitto di un immigrato è altamente notiziabile, come si dice in gergo, e farà vendere di più se verrà sbattuto in prima pagina con adeguata enfasi. Le attese e le emozioni dell’opinione pubblica dunque precondizionano l’operato dei media, che a loro volta confermano e amplificano paure e pregiudizi socialmente diffusi;
- Compresi gli attraversamenti a piedi di zone desertiche, come al confine tra Messico e Stati Uniti, o in alcune zone del Sahara;
- Si noti ancora una volta come il linguaggio riveli le concezioni sottostanti: si parla di “naturalizzazione” per indicare l’acquisizione della cittadinanza di un determinato Stato, come se l’appartenenza nazionale fosse un dato di natura;
- Sono di questo tipo i programmi noti come 3x1, sviluppati per esempio in Messico: per la realizzazione di progetti di welfare locale, ad un dollaro donato dalle associazioni degli emigrati se ne aggiunge uno investito dal governo centrale e uno del governo locale;
- Sorge poi un’altra questione, inerente al rapporto tra media (specialmente la televisione) e spettatori. Noi spesso ci lamentiamo del fatto che le televisioni, pubbliche e private, ci inondano di fatti di sangue e cattive notizie. I candidati all’emigrazione, a quanto pare, vedrebbero invece un mondo scintillante, affluente, ricco di promesse. Forse ognuno filtra i messaggi che riceve attraverso i suoi schemi cognitivi e le sue aspettative.
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