09/08/10

chi ha paura del negoziante straniero?

articolo da lavoce.info

di Maurizio Ambrosini 05.08.2010
Cresce il numero delle imprese individuali con titolare extracomunitario. Sono soprattutto attività legate al commercio, fisso e ambulante. Che contribuiscono a mutare il paesaggio urbano delle città e per questo sono ostacolate da molti amministratori locali, in particolare lombardi. Anziché apprezzare il fatto che vetrine illuminate e negozi aperti vivacizzano anche i quartieri difficili, prevale una visione della sicurezza come rimozione dei luoghi di incontro e degli spazi di socialità dei gruppi considerati pericolosi. Anche a costo di desertificare le strade.


Bonostante la crisi, le imprese individuali con un titolare immigrato extracomunitario crescono: 37.645 quelle nate nel 2009, secondo il Rapporto Unioncamere 2010. (1) Sono complessivamente 251mila, il 4,5 per cento in più rispetto al 2008.
DIVIETI SELETTIVI
Anche le imprese individuali degli immigrati risentono della crisi, giacché il dinamismo delle nuove nascite è rallentato e le cessazioni sono aumentate. A volte l’avvio di una piccola attività può anche essere un modo per sottrarsi alla disoccupazione e per non perdere il permesso di soggiorno. Interessante però il fatto che prosegua un trend che diversifica il profilo della popolazione immigrata e modifica il paesaggio urbano di città grandi e piccole. In effetti, sono le attività legate al commercio, fisso e ambulante, a capeggiare la graduatoria, con 108mila aziende, pari al 43 per cento di tutte quelle che hanno un titolare immigrato, seguite dalle costruzioni, con 68mila ditte.

La Lombardia è la prima regione, con quasi 46mila titolari, pari al 18,3 per cento del totale. Proprio qui però la politica sta lanciando segnali che vanno in un’altra direzione. Dopo le regolamentazioni restrittive per i phone-centers e quelle dello scorso anno sull’artigianato alimentare, che hanno colpito di fatto principalmente i venditori di kebab, ora è il comune di Milano a limitare gli orari di apertura dei negozi nei quartieri sensibili, prima via Padova, poi via Paolo Sarpi e probabilmente altre zone a marcata concentrazione di commerci “etnici”. Nessuno dubita che siano questi il bersaglio dei divieti, non formulabili esplicitamente in termini xenofobi.
Anziché apprezzare il fatto che vetrine illuminate e negozi aperti immettono vivacità e circolazione di persone in quartieri difficili, prevale una visione della sicurezza come rimozione dei luoghi di incontro e degli spazi di socialità dei gruppi considerati pericolosi, anche a costo di desertificare le strade. Nello stesso tempo si assesta un colpo allo sviluppo di attività economiche che non piacciono ai decisori politici, soprattutto perché rendono più visibili gli immigrati.
Se si sospetta che per esempio le sale di massaggi cinesi, in grande sviluppo in città, nascondano forme di prostituzione, si possono colpire con le leggi che vietano lo sfruttamento sessuale, accertando eventuali reati con opportuni controlli. Così per altri negozi, se sono il paravento di attività illecite. Vietare le aperture serali colpisce invece l’economia e il dinamismo urbano: quella dimensione di vitalità che da sempre rende attraenti le metropoli. In molte città del mondo, sono proprio i negozi degli immigrati, tra l’altro spesso aperti fino a tardi, a ravvivare quartieri popolari, a introdurre prodotti esotici, a diversificare con insegne e colori inusuali il paesaggio urbano. (2)
In primavera, qualcuno aveva poi proposto in Parlamento di imporre esami di italiano agli stranieri che intendono aprire un negozio, nonché di vietare le insegne in lingue non parlate nell’Unione Europea. La prima norma appare pleonastica: chi intraprende è generalmente in grado di comunicare con i suoi clienti, altrimenti li perde. Di solito, come ci dicono le ricerche sul tema, dispone di una consistente anzianità migratoria e di un buon livello di istruzione. Il divieto di insegne straniere dà forma a un sentimento strisciante, che viene ancora una volta coltivato e rafforzato: ciò che si vuole rifiutare è la trasformazione anche simbolica degli spazi quotidiani che l’immigrazione comporta. Tanto più l’immigrazione che intraprende.
Mi diceva nei giorni scorsi un alto esponente dell’associazionismo del commercio: “ma noi dovremmo favorire chi vuole intraprendere, non ostacolarlo”. È ciò che avviene in tutti i paesi sviluppati. In Italia, quando ci sono di mezzo gli immigrati, facciamo fatica a essere normali.

(1) Traggo questi dati dall’agenzia on line “Redattore Sociale” del 6 maggio 2010.
(2) Ho approfondito questi aspetti in M. Ambrosini, Richiesti e respinti, Milano, Il Saggiatore, 2010.

Nessun commento:

Posta un commento