09/08/10

Guardia di Finanza vs imprese cinesi

Emilia Romagna: la Guardia di Finanza scopre un vasto sistema di evasione fiscale e sfruttamento del lavoro di 1.200 imprese con titolare cinese.
Ancora un episodio, molto grave, che torna a far parlare delle difficoltà di integrazione e di legalità legate alla comunità cinese.


1.200 imprese cinesi in tutta Italia, organizzate da un gruppo ristretto di commercialisti, che attraverso false fatturazioni hanno evaso oltre 300 milioni di euro in due anni. Il sistema gestito attraverso consulenti e fiscalisti di origine cinese ma laureati e abilitati a lavorare in Italia.
A scoprirlo è stata la Guardia di Finanza dell’Emilia Romagna che ha arrestato due imprenditori e ne ha denunciati altri 24 per reati legati all’immigrazione, mentre il grosso delle imprese è ancora sotto verifica da parte degli uomini delle fiamme gialle.

I reati ipotizzati vanno dall’emissione all’uso di false fatture, il favoreggiamento dell’immigrazione clandestina e lo sfruttamento della manodopera irregolare. L’operazione è cominciata all’inizio del 2008 da un normale servizio di controllo da parte dei militari della tenenza di Cento, in provincia di Ferrara, di alcuni laboratori tessili situati tra Bondeno e Cento. Lo scenario che si è presentato ai finanzieri è sempre il solito: cittadini cinesi costretti a lavorare in luoghi chiusi e inaccessibili dall’esterno con camere da letto ricavate all’interno dei laboratori attraverso l’uso di pannelli di compensato e resti di cibo ovunque. Molti di loro non parlavano italiano e non sapevano neppure dove si trovavano.
Le aziende coinvolte sono sparse su tutto il territorio nazionale, 240 solo in Emilia-Romagna, un centinaio a Bologna. Le dieci che producevano fatture false si concentrano in Emilia-Romagna, Toscana, Marche e Lombardia. Il sistema di fatture false ha fruttato un azzeramento dei redditi per 250 milioni di euro e un’evasione di Iva per altri 45 milioni.
Per il generale Domenico Minervini, comandante regionale della Guardia di Finanza, l’indagine ha messo a nudo “il salto di livello della criminalità economica cinese”. Per il generale infatti non si tratta più del fenomeno “classico” del laboratorio in nero che sfrutta clandestini, ma di imprenditori che lavorano nella catena del subappalto per ditte della moda italiana. Ditte del circuito legale, che quindi fatturano quel che fanno produrre ad altri. Davanti a incassi “innegabili” al fisco, i cinesi hanno trovato il modo di vanificarli fiscalmente attraverso spese mai sostenute. Un meccanismo oliato, tanto da far sospettare che dietro ci sia qualcosa di più.

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