L’UNAR “possibilista” sull’accesso degli stranieri al Pubblico Impiego
In data 4 agosto 2010, l'UNAR (Ufficio Nazionale Anti-Discriminazioni Razziali), l'Autorità nazionale contro le discriminazioni razziali prevista dalla normativa di recepimento della direttiva europea n. 2000/43/CE, ha diffuso un parere legale, redatto dal magistrato Rosita D'Angiolella, concernente la controversa questione dell'accesso degli stranieri extracomunitari al pubblico impiego.
Nel parere, l'UNAR prende atto della mancanza di un'interpretazione univoca del complesso quadro normativo vigente. Anche nella giurisprudenza, si riflettono due contrapposti indirizzi interpretativi: a) da un lato la tesi dell'impossibilità per gli stranieri extracomunitari di accedere all'impiego pubblico, sostenuta dagli organi di governo (parere n. 196/04 dd. 28.09.2004 Presidenza del Consiglio dei Ministri - Dipartimento Funzione Pubblica, e dall'unica sentenza dei giudici di legittimità sull'argomento (Cassazione, n. 24170/2006), nonché dalla maggior parte della giurisprudenza amministrativa (ad es. parere del Consiglio di Stato n. 2592/2003); b) dall'altro la tesi favorevole all'accesso degli stranieri ai rapporti di impiego pubblico con le stesse limitazioni previste per i cittadini dell'Unione europea, sostenuta dalla maggioritaria giurisprudenza di merito (ad es. Tribunale di Rimini, ordinanza 27.10.2009, n. 3626).
Riassumendo, i fautori della prima tesi sostengono che le norme di diritto interno fondanti un requisito di cittadinanza per l'accesso al pubblico impiego (d.P.R. 10.01.1957, n. 3; d.P.R. n. 487/1994 e d.lgs. n. 165/2001) non potrebbero ritenersi esaurite per effetto del principio di parità di trattamento tra lavoratori nazionali e lavoratori migranti regolarmente soggiornanti di cui all'art. 2 c. 3 del d.lgs. n. 286/98, facente riferimento alla Convenzione OIL n. 143/1975, in quanto le prime godrebbero di una protezione costituzionale per effetto dell'art. 51 Cost., che porrebbe una riserva ai soli cittadini per l'accesso al pubblico impiego motivata dal legame di solidarietà e dunque di fedeltà con lo Stato per l'attuazione dell'interesse pubblico insito nei rapporti di pubblico impiego.
La seconda tesi, invece, afferma che l'art. 2 del DPR 220/2001 prevede tra i requisiti per l'ammissione ai concorsi pubblici la cittadinanza italiana, salve le equiparazioni stabilite dalle leggi vigenti. Di conseguenza, il principio di parità di trattamento di cui all'art. 2 c. 3 del d.lgs n. 286/98 fonderebbe una tale equiparazione, con l'unica eccezione - già prevista per i cittadini dell'Unione europea - delle attività comportanti l'esercizio di pubblici poteri o funzioni di interesse nazionale (art. 38 d. lgs. n. 165/2001). Solo entro l'ambito di tali impieghi e ruoli implicanti l'esercizio di pubblici potersi ovvero funzioni di interesse nazionale, troverebbe applicazione la riserva di cittadinanza di cui all'art. 51 con riferimento alla necessità di garantire i fini pubblici .
Le conclusioni dell'UNAR, pur esprimendo alla fine un orientamento "possibilista", appaiono eccessivamente restrittive nel momento in cui sottolineano impossibilità, de jure condito, cioè stante la normativa attuale e l'interpretazione prevalente, di aprire agli stranieri extracomunitari le porte dell'impiego pubblico (pag. 8). Secondo l'UNAR, un generale riconoscimento dell'accesso degli stranieri extracomunitari al pubblico impiego sarebbe comunque auspicabile, nell'ambito di un'interpretazione dell'attuale normativa in chiave "evolutiva" e con spirito "riformista" facendo eventualmente accompagnare l'applicazione del divieto di discriminazione a norme di dettaglio maggiormente selettive che soddisfino la dimostrazione di requisiti di solidarietà e fedeltà rispetto agli interessi pubblici (conoscenza oltreché della lingua italiana, anche dei principi fondamentali della Carta costituzionale e del funzionamento dell'apparato amministrativo,...) .
Le conclusioni dell'UNAR sembrano evidenziare un approccio forse eccessivamente prudente. Innanzitutto si può menzionare il fatto che a seguito della privatizzazione dei rapporti di impiego anche nelle funzioni esercitate dalla P.A., diversi cittadini stranieri già lavorano all'interno delle strutture pubbliche in mansioni tecniche, sebbene inquadrati con contratti a tempo determinato ovvero nell'ambito di rapporti di impiego con agenzie di lavoro somministrato. Sotto questo profilo, come evidenziato da molta giurisprudenza di merito, l'argomento del necessario requisito di fedeltà e solidarietà con lo Stato nell'impiego pubblico, che si vorrebbe soddisfatto solo attraverso la riserva a favore dei cittadini, appare depotenziato sotto il profilo di un criterio interpretativo di ragionevolezza.
Non appare corretta, inoltre, l'affermazione, inoltre, che l'attuale sistema normativo e l'interpretazione prevalente si tradurrebbe nell'impossibilità, de jure condito, per tutti gli stranieri di accedere all'impiego pubblico, fatta eccezione, entro certi limiti, per i soli cittadini dell'Unione europea.
Il parere dell'UNAR sembra ignorare che, in virtù del diritto dell'Unione europea e delle conseguenti norme di recepimento nell'ordinamento nazionale, alcune categorie di cittadini di Paesi non membri dell'UE possono certamente e senza ombra di dubbio, alla luce della legislazione già in vigore, e dunque de jure condito, accedere agli impieghi pubblici. Questo senza nemmeno scomodare la controversa questione della portata applicativa dell'art. 2 comma 3 del D.lgs. n. 286/98..
Dopo l'entrata in vigore della direttiva europea n. 2004/38 in materia di libera circolazione dei cittadini dell'Unione europea e dei loro familiari, recepita in Italia con il d.lgs. n. 30/2007, appare fugato ogni dubbio sulla legittimità dell'estensione ai familiari di cittadini dell'Unione europea residenti in Italia, pure se di cittadinanza di paesi terzi, dell'accesso al pubblico impiego. L'art. 23 della direttiva infatti prevede che : "I familiari del cittadino dell'Unione, qualunque sia la loro cittadinanza, titolari del diritto di soggiorno o del diritto di soggiorno permanente in uno Stato membro hanno diritto di esercitare un'attività economica come lavoratori subordinati o autonomi". L'art. 24 sancisce il principio di parità di trattamento a favore dei cittadini dell'Unione e dei loro familiari: "Fatte salve le disposizioni specifiche espressamente previste dal trattato e dal diritto derivato, ogni cittadino dell'Unione che risiede, in base alla presente direttiva, nel territorio dello Stato membro ospitante gode di pari trattamento rispetto ai cittadini di tale Stato nel campo di applicazione del trattato. Il beneficio di tale diritto si estende ai familiari non aventi la cittadinanza di uno Stato membro che siano titolari del diritto di soggiorno o del diritto di soggiorno permanente".
La giurisprudenza della Corte di Giustizia europea aveva già chiarito con la sentenza Emir Guel contro Germania dd. 7 maggio 1986 (Causa n. 131/85) che il coniuge del lavoratore comunitario che abbia esercitato il diritto alla libera circolazione gode del principio di non discriminazione nell'accesso al lavoro, previsto per i lavoratori comunitari, qualunque sia la sua cittadinanza e nei suoi confronti si applicano le stesse disposizioni legislative, regolamentari ed amministrative che si applicano ai cittadini nazionali (il caso in questione riguardava il divieto di accesso alla professione di medico in una struttura pubblica in Germania di un cittadino cipriota coniugato con una cittadina britannica residente in Germania).
Tali principi di diritto comunitario di parità di trattamento nell'accesso all'esercizio di attività lavorativa a favore dei cittadini dell'Unione e dei loro familiari sono stati pienamente recepiti in Italia nel d.lgs. n. 30/2007. All'art. 19 si afferma: " 1. I cittadini dell'Unione e i loro familiari hanno diritto di esercitare qualsiasi attività economica autonoma o subordinata, escluse le attività che la legge, conformemente ai Trattati dell'Unione europea ed alla normativa comunitaria in vigore, riserva ai cittadini italiani. 2. Fatte salve le disposizioni specifiche espressamente previste dal Trattato CE e dal diritto derivato, ogni cittadino dell'Unione che risiede, in base al presente decreto, nel territorio nazionale, gode di pari trattamento rispetto ai cittadini nazionali nel campo di applicazione del trattato. Il beneficio di tale diritto si estende ai familiari non aventi la cittadinanza di uno Stato membro che siano titolari del diritto di soggiorno o del diritto di soggiorno permanente".
Sulla base del primato del diritto comunitario su quello interno, e dell'immediata applicabilità delle sentenze interpretative della CGE, nonché dei principi generali dell'interpretazione e della successione delle leggi nel tempo di cui all'art. 15 delle disposizioni preliminari al Codice Civile italiano, si ritiene che le disposizioni di cui all'art. 19 del d.lgs. n. 30/2007 integrino e modifichino a tutti gli effetti quanto previsto dalle norme sul pubblico impiego e dall'art. 38 del d.lgs. n. 165/2001. Di conseguenza, si conclude che anche ai familiari di cittadini degli Stati membri dell'Unione europea regolarmente residenti in Italia, qualunque sia la loro cittadinanza, se in possesso della carta di soggiorno o del diritto di soggiorno permanente, debba essere consentito l'accesso agli impieghi pubblici alle stesse condizioni e con gli stessi limiti previsti per i cittadini dell'Unione europea (comma 3: godimento dei diritti civili e politici nello Stato di appartenenza, conoscenza adeguata della lingua italiana).
Tali conclusioni sono state condivise anche dalla Commissione europea, organo cui sono attribuite anche le funzioni di vigilanza della corretta applicazione del diritto dell'Unione europea da parte degli Stati membri . In risposta ad un'interrogazione presentata al Parlamento europeo dalla parlamentare Debora Serracchiani, la Commissaria europea Malmström in data 26 marzo 2010 ha così affermato: "As regards non-EU national family members of EU citizens in Italy, the Commission is of the view that Directive 2004/38/EC on the right of citizens of the Union and their family members to move and reside freely within the territory of the Member States grants non-EU national family members of EU citizens who have the right to reside in another Member State equal treatment with nationals as regards access to employment in the public sector, with the exception of posts which involve the exercise of public authority and the responsibility for safeguarding the general interest of the state" (trad. It: "Con riferimento ai cittadini di paesi terzi non membri dell'UE familiari di cittadini dell'Unione europea residenti in Italia, la Commissione è dell'avviso che la Direttiva 2004/38/CE sul diritto dei cittadini dell'Unione e dei loro familiari di circolare e soggiornare liberamente entro il territorio degli Stati membri garantisce ai cittadini di Paesi terzi familiari di cittadini UE che hanno il diritto di risiedere in un altro Paese membro parità di trattamento con i nazionali riguardo all'accesso all'impiego nel settore pubblico, con l'eccezione degli impieghi che implichino l'esercizio di pubblici poteri o di responsabilità in relazione agli interessi generali dello Stato").
Sul piano del diritto interno, l'ASGI rammenta, peraltro, che l'art. 23 del d.lgs. n. 30/2007 prevede l'estensione delle norme previste dal decreto attuativo della direttiva europea in materia di libera circolazione dei cittadini comunitari e loro familiari anche ai familiari extracomunitari di cittadini italiani. Tale norma deve intendersi quale espressione del divieto di "discriminazioni a rovescio". Con due importanti sentenze, la Corte Costituzionale ha infatti stabilito che, in caso di deteriore trattamento della situazione puramente interna rispetto a quella applicabile all'omologa situazione disciplinata dal diritto comunitario, alla luce del principio costituzionale di eguaglianza, la posizione soggettiva garantita dal diritto comunitario sarà l'elemento su cui misurare anche la disciplina riservata alla situazione nazionale (Corte Costituzionale, sent. 16.06.1995, n. 249; Corte Cost., sent. 30.12.1997, n. 443). In altri termini il principio di eguaglianza di cui all'art. 3 della Costituzione vieta le "discriminazioni a rovescio", quelle cioè che si verificherebbero in danno del cittadino italiano quando, per effetto di una norma comunitaria, una persona o un soggetto comunitario godrebbe in Italia di un trattamento più favorevole di quello previsto in una situazione analoga per il cittadino o soggetto nazionale in virtù della norma di diritto interno. In sostanza, la ratio dell'art. 23 del d.lgs n. 30/2007 sembra essere quella di evitare che il familiare del cittadino comunitario goda di un trattamento più favorevole rispetto al familiare del cittadino italiano, con evidente pregiudizio anche per quest'ultimo, avendo in considerazione la famiglia quale ambito tra i più rilevanti nei quali si forma la personalità dell'individuo. Dal significato letterale della norma ne deriverebbe un'interpretazione della equiparazione della condizione dei familiari dei cittadini italiani a quella dei familiari di cittadini comunitari estensibile a tutte le disposizioni contenute nel decreto di recepimento della normativa comunitaria e non solo a quelle in materia di soggiorno. Pertanto, anche i familiari dei cittadini italiani godrebbero del principio di parità di trattamento nell'accesso alle attività lavorative, salvo quelle attività escluse ai cittadini dell'Unione europea conformemente alla normativa comunitaria. Ne conseguirebbe il diritto all'estensione anche ai familiari extracomunitari di cittadini italiani, titolari della carta di soggiorno o del diritto al soggiorno permanente di cui agli artt. 10 e 17 del d.lgs. n. 30/2007, dell'accesso al pubblico impiego fatte salve le limitazioni di cui al D.P.C.M. n. 174/1994.
Ulteriormente, l'art. 25 del d.lgs. n. 251/2007, attuativo della Direttiva europea n. 2004/83/CE ("Norme minime sull'attribuzione a cittadini di Paesi terzi o apolidi, della qualifica del rifugiato o di persona altrimenti bisognosa di protezione internazionale, nonché norme minime sul contenuto della protezione riconosciuta"), ha espressamente esteso l'accesso al pubblico impiego ai soli cittadini stranieri titolari dello status di rifugiato politico ai sensi della Convenzione di Ginevra del 1951 ("2. E' consentito al titolare dello status di rifugiato l'accesso al pubblico impiego, con le modalità e le limitazioni previste per i cittadini dell'Unione Europea"). Sebbene l'art. 26 c. 3 della Direttiva europea n. 2004/83/CE preveda una pari autorizzazione all'esercizio di attività dipendente nel rispetto della normativa generalmente applicabile agli impieghi nella pubblica amministrazione anche a favore del titolare della protezione sussidiaria, tale diritto non è stato recepito nella normativa italiana di riferimento. Tale questione pone, dunque, a nostro avviso un problema di insufficiente adeguamento della normativa interna agli obblighi scaturenti dalla normativa comunitaria.
Avendo, tuttavia, la norma della direttiva europea un carattere chiaro, preciso ed incondizionato, essa è di immediata e diretta applicazione nell'ordinamento interno.
Riassumendo, almeno per le sopracitate categorie di cittadini stranieri extracomunitari protetti dal diritto dell'Unione europea, non sembra sussistere alcun dubbio, de jure condito, circa il loro diritto all'accesso ai rapporti di impiego pubblici, con gli stessi limiti previsti per i cittadini dell'Unione europea. Ciononostante, come indicato in un dossier-esposto inviato dall'ASGI alla Commissione europea lo scorso 31 ottobre 2009, nella prassi tanto delle Amministrazione centrali dello Stato, quanto delle Regioni e degli enti locali, i citati obblighi derivanti da una corretta applicazione delle norme di recepimento del diritto dell'UE, risultano completamente disattesi e non rispettati. In altri termini, la questione del diritto all'accesso agli impieghi pubblici tanto dei familiari di cittadini comunitari o italiani, qualunque sia la loro cittadinanza, quanto dei rifugiati politici e dei titolari di protezione sussidiaria, è completamente ignorata, in quanto nei bandi di concorso pubblico per le assunzioni nella P.A. si continua a prevedere l'equiparazione ai cittadini nazionali soltanto per i cittadini di altri paesi membri dell'Unione Europea. La stessa "dimenticanza" appare ora nel documento dell'UNAR.
Il presente servizio, pertanto, solleciterà, l'UNAR ad un ulteriore presa di posizione sull'argomento affinchè all'"auspicio" ad un generale riconoscimento dell'accesso degli stranieri al Pubblico impiego ai sensi di un'interpretazione "evolutiva" e "riformista" dell'attuale assetto normativo, si accompagni la raccomandazione rivolta al Ministero per la Pubblica Amministrazione e l'Innovazione per una corretta ed immediata applicazione quanto meno degli obblighi comunitari e delle conseguenti normative interne di recepimento, rispetto alle quali, secondo quanto in precedenza descritto, non può certamente sussistere alcun margine di apprezzamento interpretativo che limiti l'accesso al pubblico impiego delle menzionate categorie di stranieri extracomunitari protette dal diritto comunitario.
Nel parere, l'UNAR prende atto della mancanza di un'interpretazione univoca del complesso quadro normativo vigente. Anche nella giurisprudenza, si riflettono due contrapposti indirizzi interpretativi: a) da un lato la tesi dell'impossibilità per gli stranieri extracomunitari di accedere all'impiego pubblico, sostenuta dagli organi di governo (parere n. 196/04 dd. 28.09.2004 Presidenza del Consiglio dei Ministri - Dipartimento Funzione Pubblica, e dall'unica sentenza dei giudici di legittimità sull'argomento (Cassazione, n. 24170/2006), nonché dalla maggior parte della giurisprudenza amministrativa (ad es. parere del Consiglio di Stato n. 2592/2003); b) dall'altro la tesi favorevole all'accesso degli stranieri ai rapporti di impiego pubblico con le stesse limitazioni previste per i cittadini dell'Unione europea, sostenuta dalla maggioritaria giurisprudenza di merito (ad es. Tribunale di Rimini, ordinanza 27.10.2009, n. 3626).
Riassumendo, i fautori della prima tesi sostengono che le norme di diritto interno fondanti un requisito di cittadinanza per l'accesso al pubblico impiego (d.P.R. 10.01.1957, n. 3; d.P.R. n. 487/1994 e d.lgs. n. 165/2001) non potrebbero ritenersi esaurite per effetto del principio di parità di trattamento tra lavoratori nazionali e lavoratori migranti regolarmente soggiornanti di cui all'art. 2 c. 3 del d.lgs. n. 286/98, facente riferimento alla Convenzione OIL n. 143/1975, in quanto le prime godrebbero di una protezione costituzionale per effetto dell'art. 51 Cost., che porrebbe una riserva ai soli cittadini per l'accesso al pubblico impiego motivata dal legame di solidarietà e dunque di fedeltà con lo Stato per l'attuazione dell'interesse pubblico insito nei rapporti di pubblico impiego.
La seconda tesi, invece, afferma che l'art. 2 del DPR 220/2001 prevede tra i requisiti per l'ammissione ai concorsi pubblici la cittadinanza italiana, salve le equiparazioni stabilite dalle leggi vigenti. Di conseguenza, il principio di parità di trattamento di cui all'art. 2 c. 3 del d.lgs n. 286/98 fonderebbe una tale equiparazione, con l'unica eccezione - già prevista per i cittadini dell'Unione europea - delle attività comportanti l'esercizio di pubblici poteri o funzioni di interesse nazionale (art. 38 d. lgs. n. 165/2001). Solo entro l'ambito di tali impieghi e ruoli implicanti l'esercizio di pubblici potersi ovvero funzioni di interesse nazionale, troverebbe applicazione la riserva di cittadinanza di cui all'art. 51 con riferimento alla necessità di garantire i fini pubblici .
Le conclusioni dell'UNAR, pur esprimendo alla fine un orientamento "possibilista", appaiono eccessivamente restrittive nel momento in cui sottolineano impossibilità, de jure condito, cioè stante la normativa attuale e l'interpretazione prevalente, di aprire agli stranieri extracomunitari le porte dell'impiego pubblico (pag. 8). Secondo l'UNAR, un generale riconoscimento dell'accesso degli stranieri extracomunitari al pubblico impiego sarebbe comunque auspicabile, nell'ambito di un'interpretazione dell'attuale normativa in chiave "evolutiva" e con spirito "riformista" facendo eventualmente accompagnare l'applicazione del divieto di discriminazione a norme di dettaglio maggiormente selettive che soddisfino la dimostrazione di requisiti di solidarietà e fedeltà rispetto agli interessi pubblici (conoscenza oltreché della lingua italiana, anche dei principi fondamentali della Carta costituzionale e del funzionamento dell'apparato amministrativo,...) .
Le conclusioni dell'UNAR sembrano evidenziare un approccio forse eccessivamente prudente. Innanzitutto si può menzionare il fatto che a seguito della privatizzazione dei rapporti di impiego anche nelle funzioni esercitate dalla P.A., diversi cittadini stranieri già lavorano all'interno delle strutture pubbliche in mansioni tecniche, sebbene inquadrati con contratti a tempo determinato ovvero nell'ambito di rapporti di impiego con agenzie di lavoro somministrato. Sotto questo profilo, come evidenziato da molta giurisprudenza di merito, l'argomento del necessario requisito di fedeltà e solidarietà con lo Stato nell'impiego pubblico, che si vorrebbe soddisfatto solo attraverso la riserva a favore dei cittadini, appare depotenziato sotto il profilo di un criterio interpretativo di ragionevolezza.
Non appare corretta, inoltre, l'affermazione, inoltre, che l'attuale sistema normativo e l'interpretazione prevalente si tradurrebbe nell'impossibilità, de jure condito, per tutti gli stranieri di accedere all'impiego pubblico, fatta eccezione, entro certi limiti, per i soli cittadini dell'Unione europea.
Il parere dell'UNAR sembra ignorare che, in virtù del diritto dell'Unione europea e delle conseguenti norme di recepimento nell'ordinamento nazionale, alcune categorie di cittadini di Paesi non membri dell'UE possono certamente e senza ombra di dubbio, alla luce della legislazione già in vigore, e dunque de jure condito, accedere agli impieghi pubblici. Questo senza nemmeno scomodare la controversa questione della portata applicativa dell'art. 2 comma 3 del D.lgs. n. 286/98..
Dopo l'entrata in vigore della direttiva europea n. 2004/38 in materia di libera circolazione dei cittadini dell'Unione europea e dei loro familiari, recepita in Italia con il d.lgs. n. 30/2007, appare fugato ogni dubbio sulla legittimità dell'estensione ai familiari di cittadini dell'Unione europea residenti in Italia, pure se di cittadinanza di paesi terzi, dell'accesso al pubblico impiego. L'art. 23 della direttiva infatti prevede che : "I familiari del cittadino dell'Unione, qualunque sia la loro cittadinanza, titolari del diritto di soggiorno o del diritto di soggiorno permanente in uno Stato membro hanno diritto di esercitare un'attività economica come lavoratori subordinati o autonomi". L'art. 24 sancisce il principio di parità di trattamento a favore dei cittadini dell'Unione e dei loro familiari: "Fatte salve le disposizioni specifiche espressamente previste dal trattato e dal diritto derivato, ogni cittadino dell'Unione che risiede, in base alla presente direttiva, nel territorio dello Stato membro ospitante gode di pari trattamento rispetto ai cittadini di tale Stato nel campo di applicazione del trattato. Il beneficio di tale diritto si estende ai familiari non aventi la cittadinanza di uno Stato membro che siano titolari del diritto di soggiorno o del diritto di soggiorno permanente".
La giurisprudenza della Corte di Giustizia europea aveva già chiarito con la sentenza Emir Guel contro Germania dd. 7 maggio 1986 (Causa n. 131/85) che il coniuge del lavoratore comunitario che abbia esercitato il diritto alla libera circolazione gode del principio di non discriminazione nell'accesso al lavoro, previsto per i lavoratori comunitari, qualunque sia la sua cittadinanza e nei suoi confronti si applicano le stesse disposizioni legislative, regolamentari ed amministrative che si applicano ai cittadini nazionali (il caso in questione riguardava il divieto di accesso alla professione di medico in una struttura pubblica in Germania di un cittadino cipriota coniugato con una cittadina britannica residente in Germania).
Tali principi di diritto comunitario di parità di trattamento nell'accesso all'esercizio di attività lavorativa a favore dei cittadini dell'Unione e dei loro familiari sono stati pienamente recepiti in Italia nel d.lgs. n. 30/2007. All'art. 19 si afferma: " 1. I cittadini dell'Unione e i loro familiari hanno diritto di esercitare qualsiasi attività economica autonoma o subordinata, escluse le attività che la legge, conformemente ai Trattati dell'Unione europea ed alla normativa comunitaria in vigore, riserva ai cittadini italiani. 2. Fatte salve le disposizioni specifiche espressamente previste dal Trattato CE e dal diritto derivato, ogni cittadino dell'Unione che risiede, in base al presente decreto, nel territorio nazionale, gode di pari trattamento rispetto ai cittadini nazionali nel campo di applicazione del trattato. Il beneficio di tale diritto si estende ai familiari non aventi la cittadinanza di uno Stato membro che siano titolari del diritto di soggiorno o del diritto di soggiorno permanente".
Sulla base del primato del diritto comunitario su quello interno, e dell'immediata applicabilità delle sentenze interpretative della CGE, nonché dei principi generali dell'interpretazione e della successione delle leggi nel tempo di cui all'art. 15 delle disposizioni preliminari al Codice Civile italiano, si ritiene che le disposizioni di cui all'art. 19 del d.lgs. n. 30/2007 integrino e modifichino a tutti gli effetti quanto previsto dalle norme sul pubblico impiego e dall'art. 38 del d.lgs. n. 165/2001. Di conseguenza, si conclude che anche ai familiari di cittadini degli Stati membri dell'Unione europea regolarmente residenti in Italia, qualunque sia la loro cittadinanza, se in possesso della carta di soggiorno o del diritto di soggiorno permanente, debba essere consentito l'accesso agli impieghi pubblici alle stesse condizioni e con gli stessi limiti previsti per i cittadini dell'Unione europea (comma 3: godimento dei diritti civili e politici nello Stato di appartenenza, conoscenza adeguata della lingua italiana).
Tali conclusioni sono state condivise anche dalla Commissione europea, organo cui sono attribuite anche le funzioni di vigilanza della corretta applicazione del diritto dell'Unione europea da parte degli Stati membri . In risposta ad un'interrogazione presentata al Parlamento europeo dalla parlamentare Debora Serracchiani, la Commissaria europea Malmström in data 26 marzo 2010 ha così affermato: "As regards non-EU national family members of EU citizens in Italy, the Commission is of the view that Directive 2004/38/EC on the right of citizens of the Union and their family members to move and reside freely within the territory of the Member States grants non-EU national family members of EU citizens who have the right to reside in another Member State equal treatment with nationals as regards access to employment in the public sector, with the exception of posts which involve the exercise of public authority and the responsibility for safeguarding the general interest of the state" (trad. It: "Con riferimento ai cittadini di paesi terzi non membri dell'UE familiari di cittadini dell'Unione europea residenti in Italia, la Commissione è dell'avviso che la Direttiva 2004/38/CE sul diritto dei cittadini dell'Unione e dei loro familiari di circolare e soggiornare liberamente entro il territorio degli Stati membri garantisce ai cittadini di Paesi terzi familiari di cittadini UE che hanno il diritto di risiedere in un altro Paese membro parità di trattamento con i nazionali riguardo all'accesso all'impiego nel settore pubblico, con l'eccezione degli impieghi che implichino l'esercizio di pubblici poteri o di responsabilità in relazione agli interessi generali dello Stato").
Sul piano del diritto interno, l'ASGI rammenta, peraltro, che l'art. 23 del d.lgs. n. 30/2007 prevede l'estensione delle norme previste dal decreto attuativo della direttiva europea in materia di libera circolazione dei cittadini comunitari e loro familiari anche ai familiari extracomunitari di cittadini italiani. Tale norma deve intendersi quale espressione del divieto di "discriminazioni a rovescio". Con due importanti sentenze, la Corte Costituzionale ha infatti stabilito che, in caso di deteriore trattamento della situazione puramente interna rispetto a quella applicabile all'omologa situazione disciplinata dal diritto comunitario, alla luce del principio costituzionale di eguaglianza, la posizione soggettiva garantita dal diritto comunitario sarà l'elemento su cui misurare anche la disciplina riservata alla situazione nazionale (Corte Costituzionale, sent. 16.06.1995, n. 249; Corte Cost., sent. 30.12.1997, n. 443). In altri termini il principio di eguaglianza di cui all'art. 3 della Costituzione vieta le "discriminazioni a rovescio", quelle cioè che si verificherebbero in danno del cittadino italiano quando, per effetto di una norma comunitaria, una persona o un soggetto comunitario godrebbe in Italia di un trattamento più favorevole di quello previsto in una situazione analoga per il cittadino o soggetto nazionale in virtù della norma di diritto interno. In sostanza, la ratio dell'art. 23 del d.lgs n. 30/2007 sembra essere quella di evitare che il familiare del cittadino comunitario goda di un trattamento più favorevole rispetto al familiare del cittadino italiano, con evidente pregiudizio anche per quest'ultimo, avendo in considerazione la famiglia quale ambito tra i più rilevanti nei quali si forma la personalità dell'individuo. Dal significato letterale della norma ne deriverebbe un'interpretazione della equiparazione della condizione dei familiari dei cittadini italiani a quella dei familiari di cittadini comunitari estensibile a tutte le disposizioni contenute nel decreto di recepimento della normativa comunitaria e non solo a quelle in materia di soggiorno. Pertanto, anche i familiari dei cittadini italiani godrebbero del principio di parità di trattamento nell'accesso alle attività lavorative, salvo quelle attività escluse ai cittadini dell'Unione europea conformemente alla normativa comunitaria. Ne conseguirebbe il diritto all'estensione anche ai familiari extracomunitari di cittadini italiani, titolari della carta di soggiorno o del diritto al soggiorno permanente di cui agli artt. 10 e 17 del d.lgs. n. 30/2007, dell'accesso al pubblico impiego fatte salve le limitazioni di cui al D.P.C.M. n. 174/1994.
Ulteriormente, l'art. 25 del d.lgs. n. 251/2007, attuativo della Direttiva europea n. 2004/83/CE ("Norme minime sull'attribuzione a cittadini di Paesi terzi o apolidi, della qualifica del rifugiato o di persona altrimenti bisognosa di protezione internazionale, nonché norme minime sul contenuto della protezione riconosciuta"), ha espressamente esteso l'accesso al pubblico impiego ai soli cittadini stranieri titolari dello status di rifugiato politico ai sensi della Convenzione di Ginevra del 1951 ("2. E' consentito al titolare dello status di rifugiato l'accesso al pubblico impiego, con le modalità e le limitazioni previste per i cittadini dell'Unione Europea"). Sebbene l'art. 26 c. 3 della Direttiva europea n. 2004/83/CE preveda una pari autorizzazione all'esercizio di attività dipendente nel rispetto della normativa generalmente applicabile agli impieghi nella pubblica amministrazione anche a favore del titolare della protezione sussidiaria, tale diritto non è stato recepito nella normativa italiana di riferimento. Tale questione pone, dunque, a nostro avviso un problema di insufficiente adeguamento della normativa interna agli obblighi scaturenti dalla normativa comunitaria.
Avendo, tuttavia, la norma della direttiva europea un carattere chiaro, preciso ed incondizionato, essa è di immediata e diretta applicazione nell'ordinamento interno.
Riassumendo, almeno per le sopracitate categorie di cittadini stranieri extracomunitari protetti dal diritto dell'Unione europea, non sembra sussistere alcun dubbio, de jure condito, circa il loro diritto all'accesso ai rapporti di impiego pubblici, con gli stessi limiti previsti per i cittadini dell'Unione europea. Ciononostante, come indicato in un dossier-esposto inviato dall'ASGI alla Commissione europea lo scorso 31 ottobre 2009, nella prassi tanto delle Amministrazione centrali dello Stato, quanto delle Regioni e degli enti locali, i citati obblighi derivanti da una corretta applicazione delle norme di recepimento del diritto dell'UE, risultano completamente disattesi e non rispettati. In altri termini, la questione del diritto all'accesso agli impieghi pubblici tanto dei familiari di cittadini comunitari o italiani, qualunque sia la loro cittadinanza, quanto dei rifugiati politici e dei titolari di protezione sussidiaria, è completamente ignorata, in quanto nei bandi di concorso pubblico per le assunzioni nella P.A. si continua a prevedere l'equiparazione ai cittadini nazionali soltanto per i cittadini di altri paesi membri dell'Unione Europea. La stessa "dimenticanza" appare ora nel documento dell'UNAR.
Il presente servizio, pertanto, solleciterà, l'UNAR ad un ulteriore presa di posizione sull'argomento affinchè all'"auspicio" ad un generale riconoscimento dell'accesso degli stranieri al Pubblico impiego ai sensi di un'interpretazione "evolutiva" e "riformista" dell'attuale assetto normativo, si accompagni la raccomandazione rivolta al Ministero per la Pubblica Amministrazione e l'Innovazione per una corretta ed immediata applicazione quanto meno degli obblighi comunitari e delle conseguenti normative interne di recepimento, rispetto alle quali, secondo quanto in precedenza descritto, non può certamente sussistere alcun margine di apprezzamento interpretativo che limiti l'accesso al pubblico impiego delle menzionate categorie di stranieri extracomunitari protette dal diritto comunitario.
Commento a cura di Walter Citti, del Servizio di supporto giuridico contro le discriminazioni etnico-razziali e religiose, progetto ASGI con il sostegno finanziario della Fondazione italiana a finalità umanitarie Charlemagne ONLUS.
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